Chieti, sentenza sessista: "È donna, non può fare il custode"
Una frase scritta dai giudici della Commissione tributaria scatena reazioni. La protagonista ricorre in Cassazione
CHIETI. «... Le mansioni principali sono di natura amministrativa e che una donna non sarebbe di certo la persona più idonea ad assicurare una proficua ed effettiva tutela del complesso aziendale», è quanto si legge nello stralcio di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo emessa da un collegio composto da Domenico Casablanca in qualità di Presidente, Geremia Spiniello come relatore e Enrico Di Marcotullio come giudice.
Un pronunciamento che rischia di far discutere sul tema delle pari opportunità tra uomini e donne dato che la sentenza sembra lasciar intendere che un ruolo lavorativo, nel caso specifico l’avere la custodia di uno stabile, non sia adatto a una persona di genere femminile. Protagonista della vicenda è una donna di Chieti che ha immediatamente, attraverso i suoi consulenti fiscali e legali, deciso di impugnare la sentenza sentendosi parte lesa per un provvedimento considerato di natura sessista.
Tutto è iniziato nel 2010, quando l’Agenzia delle Entrate ha contestato ad una società teatina, la Edilpini srl, avente oltre trentacinque anni di attività nel settore edile, il valore di un appartamento considerandolo abitazione principale e non residenza del custode, mediante la richiesta di maggiori imposte per un importo di 19mila euro.
La società ricorre alla Commissione Tributaria Provinciale che accetta le ragioni del ricorso: l'immobile è da considerarsi un bene strumentale, quindi dell'azienda. A vivere con la sua famiglia nell'appartamento, situato sopra la sede dell'impresa edile e nelle vicinanze dei locali adibiti a magazzino, è la protagonista della sentenza.
La donna, che oggi è socia della ditta con i suoi due fratelli, è incaricata di custodire i beni dell'attività. L’Agenzia delle Entrate, però, fa appello alla Commissione di Secondo grado che, nella sentenza del 30 aprile 2015, ribalta il primo verdetto, considerando l’appartamento a se stante in riferimento alla categoria catastale, apportando tra le motivazioni la frase che sembra lasciar intendere la non idoneità di una donna al ruolo di custode.
«Al di là del merito della sentenza – commenta la donna – in quella frase vi è una offesa alla mia persona e in generale alle donne, un provvedimento che considero di natura sessista contro il quale è stato deciso di ricorrere in Cassazione». Nel ricorso, la società teatina, assistita dal commercialista e dall’avvocato di fiducia, sottolinea quanto la specifica frase della sentenza violerebbe il principio di uguaglianza sancito a livello nazionale e internazionale.
«La sentenza ha dell’incredibile – dichiarano i consulenti – intanto nessuno più di una persona di fiducia come un parente stretto potrebbe garantire maggior tutela di un bene di famiglia, inoltre le argomentazioni utilizzate nella sentenza di secondo grado, ritenendo la socia nostra assistita non idonea a quel ruolo in quanto donna, sono da intendersi discriminatorie e rappresentano una chiara violazione dell’articolo 3 della Costituzione italiana, ma violano anche il codice delle Pari Opportunità e l’ordinamento internazionale e comunitario in materia di non discriminazione di genere».
«E nel frattempo, pur in pendenza del ricorso in Corte di Cassazione, che verte anche su una motivazione discriminatoria, l'Agenzia delle Entrate richiede oggi alla società il pagamento di oltre ventiduemila euro».