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Sesso per un alloggio, D'Agostino ricorre in Cassazione
L’ex assessore alle politiche della casa del Comune, condannato con patteggiamento a 3 anni e tre mesi per concussione e violenza sessuale ai danni di 7 donne che chiedevano un alloggio popolare, al contrattacco: non è concussione, le donne non sono state minacciate
CHIETI. Ivo D’Agostino, l’ex assessore alle politiche della casa del Comune, condannato con patteggiamento a 3 anni e tre mesi per concussione e violenza sessuale ai danni di 7 donne che chiedevano un alloggio, cambia avvocato e va in Cassazione. Il ricorso contro la sentenza della giudice Antonella Redaelli è stato presentato venerdì scorso, al limite della scadenza. A proporlo l’avvocato Alessandro De Iuliis, di Chieti.
I motivi sono tre.
Il primo: erronea qualificazione giuridica dei fatti. Per prima cosa, secondo il legale, non era la concussione che avrebbe dovuto contestarsi all’ex assessore, perché nel suo comportamento non c’è l’elemento costitutivo del reato: la costrizione del pubblico ufficiale. Il pubblico ministero si sarebbe limitato ad addebitare l’abuso, senza descrivere alcuna condotta minacciosa dell’imputato ai danni delle donne che chiedevano un alloggio, manca l’elemento necessario a configurare la concussione. Ci sarebbe, invece, un elemento generico ricollegato solo alla sua funzione di assessore. Inoltre, se l’utilitas non era il denaro ma la tangente sessuale, si sarebbe dovuto dire: “D’Agostino ha chiesto il favore sessuale sotto la pressione psicologica di una conseguenza: non ti do l’alloggio, vivrai sempre sotto i ponti”, «Questo non esiste», dice De Iuliis, «né nel capo di imputazione, né nel processo. Ci troviamo di fronte alla condotta di un vagheggino che pensa di dover sedurre e si dimentica che è assessore» dice De Iuliis.
Ma la qualificazione errata del reato si basa anche su una seconda ragione: il suo comportamento avrebbe potuto essere incasellato, semmai, nella fattispecie del 319 quater (legge Severino quella di cui beneficiò Berlusconi ndr) che prevede la concussione indotta. «In altre parole», dice il legale, «se manca la minaccia si sarebbe potuto ipotizzare la induzione a dare o promettere utilità sessuali. Su questa possibilità, che è anche difficile da accettare, considerato che è tutto molto più sfumato, si può discutere e comunque avrebbe inciso sulla pena patteggiata che avrebbe dovuto essere calcolata sul reato più grave, la violenza sessuale, che parte da 5 anni e non da sei. Questo è un altro errore».
Secondo motivo del ricorso: il giudice avrebbe tolto arbitrariamente l’attenuante della violenza sessuale nell’ipotesi della minore gravità che D’Agostino aveva espressamente chiesto: «Un palpeggiamento, un bacio sul collo o sulla bocca sono violenze di minore gravità», aggiunge il legale. Il terzo motivo riguarda il licenziamento. La pena accessoria, nell’ipotesi del 319 quater non è prevista. Secondo l’avvocato è illegittimo che il giudice abbia ordinato alla Asl il licenziamento di D’Agostino, perché la pena di 3 anni e 3 mesi si ottiene sulla soglia della continuazione tra i due reati e invece può valere solo per quello contro la pubblica amministrazione. Così si giungerebbe sotto i tre anni per cui la pena del licenziamento non è prevista così come la interdizione perpetua dai pubblici uffici.
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