Dietro le quinte, lo spettacolo segreto di Giancarlo Giannini

9 Marzo 2025

«Si vede, scavando tra le luci soffuse, un uomo che si osserva la punta delle scarpe o prova a svitare il tappo difettoso di una bottiglietta, bere e riporla e aspettare, da solo, seduto o in piedi contro una parete. A cosa pensa? Le persone a cui rende omaggio (Lina Wertmuller, Luchino Visconti, Mariangela Melato) sono morte già da qualche tempo. Lo ricorda lui stesso, e dice «Li raggiungerò anch’io, presto». Il racconto dello spettacolo “Io, il cinema e la poesia” di e con Davide Cavuti e Giancarlo Giannini

CITTÀ SANT’ANGELO. Dante, D’Annunzio, Petrarca, Pasolini, Leopardi, Garcia Lorca, Shakespeare. E poi Astor Piazzolla, Carlos Gardel, Alessandro Cicognini, Francesco Paolo Tosti. Le composizioni originali del maestro Davide Cavuti, che ha ideato e diretto lo spettacolo “Io, il Cinema e la Poesia”, e quelle intramontabili di pellicole già consacrate al classico. Il monologo del Marco Antonio e quello finale del Puck di “Sogno di una notte di mezza estate”, la donna dello Stilnovo e del cileno Neruda, la “Supplica a mia madre” e la “Pioggia nel pineto”. 

Sono da poco trascorse le ore 21 quando il sipario del teatro comunale di Città Sant’Angelo si apre su uno spazio silenzioso con tre sedie e un leggio, le luci blu sulle assi del palco. Entrano Cavuti (fisarmonica), Antonio Scolletta (violino) e Franco Finucci (chitarra), le luci sfumano e l’atmosfera è più morbida. C’è un grande silenzio prima che i musicisti inizino a suonare. Da una posizione privilegiata (il sedile laterale della prima fila) si può trovare con lo sguardo Giancarlo Giannini nascosto dietro il drappo rosso sulla destra.

Perfetto nel suo abito scuro, il baffo e la chioma bianca. Resta una figura solenne anche quando lo si vede, nelle quinte, ricurvo che si sfrega le mani, si guarda attorno come circospetto, mima un segno della croce che ha tutto il senso del rito, sommesso e privato, un abbandono al trascendente. Ci si chiede a cosa pensi, con il viso contratto e lo sguardo accigliato, quell’uomo non così alto che ha raggiunto i vertici della sua arte, che quarant’anni fa aveva già vissuto così tanto, e conosciuto tutta la fama e il prestigio, viaggiato ovunque, conquistato i palchi e le sale d’oltreoceano, e adesso è lì, nelle quinte di un recital dopo una sterminata carriera. Lo si vede strofinarsi le lenti degli occhiali e rimetterli indosso con fare drammatico. 

A cosa pensa, dietro gli occhiali? È una visione magnetica che non lascia accorgere lo spettatore (quello più fortunato che può intercettarlo prima che calchi il palco) dello stacco tra le quinte e l’ingresso in scena, quando la musica si è già fermata e Giannini, annunciato dal maestro Cavuti, raggiunge i musicisti e saluta la sala piena. Tutto il recital ha il sapore di un memoir: dalle clip che ricordano alcuni dei film italiani e internazionali in cui Giannini ha recitato (e che gli sono valsi una stella nella Walk of fame e una sfilata di altri premi in giro per il mondo) alle poesie amate nella sua vita (e D’Annunzio recitato così bene, senza broncio, è molto più di una captatio benevolentiae) e ai grandi frammenti del teatro che lo ha visto protagonista, chiudendo sotto gli applausi con quel Puck che interpretò (era la sua prima volta a teatro) 60 anni fa. 

C’è la voce di Candida Libera d’Aurelio sulle note dell’ensemble di Cavuti, ci sono i ricordi di una vita, la comicità che nasce da una battuta improvvisata o l’imbarazzo di un tempo morto che concede lo spazio a un siparietto fuori programma, anche se Cavuti precisa che «è tutto voluto e organizzato, anche i momenti in cui lui mi chiede di suonare e io non lo faccio». Si ride molto, si rimane impressionati da una voce che gli spettatori conoscono da oltre mezzo secolo e che ancora non ha smesso di scuotere, si gode di una sintonia perfetta e genuina che traina lo spettacolo per quasi due ore senza far pesare neppure un secondo della sua durata. E c’è lo spettacolo (dentro lo spettacolo) dello spiare un colosso del cinema e del teatro nei momenti in cui, le luci più basse e oscure, l’attenzione è catalizzata dai musicisti, dalla cantante, da un filmato di una manciata di minuti o secondi. 

Si vede, scavando tra le luci soffuse, quando tutti guardano altrove, un uomo che si osserva la punta delle scarpe o prova a svitare il tappo difettoso di una bottiglietta, bere e riporla e poi è ancora lì che guarda e soprattutto aspetta, da solo, seduto o in piedi contro una parete del teatro. A cosa pensa? Le persone a cui rende omaggio (Lina Wertmuller, Visconti, Mariangela Melato) sono morte già da qualche tempo. Lo ricorda lui stesso, e dice «Li raggiungerò anch’io, presto». L’Italia dei suoi ricordi non potrebbe essere più lontana da questa, il cinema di oggi non gli appartiene, forse (certamente, anzi) non ci sarà più nulla di nuovo da dire nella sua arte, ma vive già nella leggenda, sale sul palco e per due ore non ha bisogno di una linea che unisca i puntini, che dia un senso, che abbia un centro, che lasci un messaggio. È semplicemente Giancarlo Giannini, malinconico e vanesio, mesto e giocoso, un miracolo di voce, postura, atteggiamento. Guardarlo e chiedersi quale pensiero stia navigando dietro quegli occhi persi su una platea buia è già uno spettacolo per cui pagare, ma con la musica è ancora più bello.