l’intervista a christian del pinto
Il sismologo: sbagliato affermare che si sta tranquilli per tre secoli
L’AQUILA. «L’occorrenza di un evento non azzera completamente la possibilità che in quella stessa area altri eventi importanti possano accadere, quindi non ha molto senso dirci al sicuro per i...
L’AQUILA. «L’occorrenza di un evento non azzera completamente la possibilità che in quella stessa area altri eventi importanti possano accadere, quindi non ha molto senso dirci al sicuro per i prossimi trecento anni». Tra i contatti telefonici più richiesti dopo le due scosse di mercoledì sera che hanno interessato L’Aquila e dintorni c'è sicuramente quello del sismologo Christian Del Pinto, ormai da quindici anni chiamato in causa ogni volta che la terra torna a tremare, specie in Abruzzo e in Molise. La sua analisi dei dati messi a disposizione dall’Ingv può fornire delle indicazioni importanti, sia in merito alle coordinate del fenomeno, sia soprattutto in relazione a quanto dovrebbe essere messo in campo in materia di prevenzione.
Dottor Del Pinto, ha avvertito le scosse?
«Non direttamente perché ero alla guida tra L’Aquila e Scoppito. Me ne sono accorto quando il telefono ha iniziato a riempirsi di chiamate e messaggi. Appena tornato a casa ho potuto visionare e interpretare i dati pubblicati».
Su cosa ha concentrato l’attenzione?
«Gli eventi sismici sono stati due, rispettivamente di magnitudo momento 3.6 e 3.7 a distanza sia temporale che spaziale – per quest’ultima almeno da quanto sembra – ravvicinata».
Perché dice così?
«Le coordinate spaziali della seconda scossa non sono chiarissime. Nella localizzazione del secondo evento è stata utilizzata una profondità di default – 10 chilometri – e non è stato ancora pubblicato il meccanismo di sorgente – Time domain moment tensor o Tdmt – che, in un certo senso, rappresenta la carta d’identità del terremoto. Due Tdmt molto simili in un’area molto limitata potrebbero suggerire che la sorgente sia la stessa, fratturata a poche decine di secondi di distanza in due punti differenti. Ma senza il confronto tra i due Tdmt si resta solo nel campo delle ipotesi. È cosa comune che, per due eventi vicini nel tempo e nello spazio, il secondo risulti più difficile da localizzare. Praticamente è come se il segnale rilevato dalla seconda scossa fosse sporcato dalla coda della prima».
Quanto è importante una localizzazione adeguata di un evento sismico?
«Molto importante, specie quando va a insistere su un’area interessata che è quella ben nota dell’evento principale del 6 aprile 2009; seppure, in questo caso, alla profondità di 13 chilometri rispetto agli 8 dell’evento di quasi 15 anni fa. E questo ci ricorda che una zona sismica resta tale anche se, statisticamente, si parla di tempo di ritorno per i terremoti più importanti. Ma il cosiddetto tempo di ritorno viene calcolato su un elenco di eventi, sia storici sia strumentali, che per sua natura è lacunoso e parziale. Mi fa specie che qualcuno sia andato persino nelle aule universitarie a dire che da queste parti si può stare tranquilli per i prossimi tre secoli».
Cosa si può fare allora?
«La parola chiave è sempre e solo una: prevenzione. Ma di prevenzione si parla, paradossalmente, sempre dopo che avviene un fatto grave. In ogni caso, in una zona sismica, abbassare la guardia è un lusso che non ci si può permettere. In primis bisogna lavorare sulla qualità delle costruzioni, all’Aquila qualcuno si sta permettendo di realizzare edifici con criteri da Zona 2. E poi bisogna implementare la rete sismica locale».
Che vuol dire potenziare la rete sismica locale?
«Più stazioni di rilevamento sismico hai a disposizione, migliore è la risoluzione del dato e si evitano imprecisioni come quella dell’altra sera. Quattro anni fa avevo presentato un progetto di capillarizzazione in collaborazione con l’Università dell’Aquila, in particolare Giovanni De Gasperis del Disim, e l’Ingv, Gaetano De Luca. L’investimento è relativamente irrisorio, ricordo che in Molise è stata messa in opera una rete simile con 50mila euro e questa cosa ha quadruplicato i dati registrati dalla sola Ingv dal 2006 al 2013. Però si sa che la prevenzione paga meno in termini di consenso elettorale». (fab.i.)
Dottor Del Pinto, ha avvertito le scosse?
«Non direttamente perché ero alla guida tra L’Aquila e Scoppito. Me ne sono accorto quando il telefono ha iniziato a riempirsi di chiamate e messaggi. Appena tornato a casa ho potuto visionare e interpretare i dati pubblicati».
Su cosa ha concentrato l’attenzione?
«Gli eventi sismici sono stati due, rispettivamente di magnitudo momento 3.6 e 3.7 a distanza sia temporale che spaziale – per quest’ultima almeno da quanto sembra – ravvicinata».
Perché dice così?
«Le coordinate spaziali della seconda scossa non sono chiarissime. Nella localizzazione del secondo evento è stata utilizzata una profondità di default – 10 chilometri – e non è stato ancora pubblicato il meccanismo di sorgente – Time domain moment tensor o Tdmt – che, in un certo senso, rappresenta la carta d’identità del terremoto. Due Tdmt molto simili in un’area molto limitata potrebbero suggerire che la sorgente sia la stessa, fratturata a poche decine di secondi di distanza in due punti differenti. Ma senza il confronto tra i due Tdmt si resta solo nel campo delle ipotesi. È cosa comune che, per due eventi vicini nel tempo e nello spazio, il secondo risulti più difficile da localizzare. Praticamente è come se il segnale rilevato dalla seconda scossa fosse sporcato dalla coda della prima».
Quanto è importante una localizzazione adeguata di un evento sismico?
«Molto importante, specie quando va a insistere su un’area interessata che è quella ben nota dell’evento principale del 6 aprile 2009; seppure, in questo caso, alla profondità di 13 chilometri rispetto agli 8 dell’evento di quasi 15 anni fa. E questo ci ricorda che una zona sismica resta tale anche se, statisticamente, si parla di tempo di ritorno per i terremoti più importanti. Ma il cosiddetto tempo di ritorno viene calcolato su un elenco di eventi, sia storici sia strumentali, che per sua natura è lacunoso e parziale. Mi fa specie che qualcuno sia andato persino nelle aule universitarie a dire che da queste parti si può stare tranquilli per i prossimi tre secoli».
Cosa si può fare allora?
«La parola chiave è sempre e solo una: prevenzione. Ma di prevenzione si parla, paradossalmente, sempre dopo che avviene un fatto grave. In ogni caso, in una zona sismica, abbassare la guardia è un lusso che non ci si può permettere. In primis bisogna lavorare sulla qualità delle costruzioni, all’Aquila qualcuno si sta permettendo di realizzare edifici con criteri da Zona 2. E poi bisogna implementare la rete sismica locale».
Che vuol dire potenziare la rete sismica locale?
«Più stazioni di rilevamento sismico hai a disposizione, migliore è la risoluzione del dato e si evitano imprecisioni come quella dell’altra sera. Quattro anni fa avevo presentato un progetto di capillarizzazione in collaborazione con l’Università dell’Aquila, in particolare Giovanni De Gasperis del Disim, e l’Ingv, Gaetano De Luca. L’investimento è relativamente irrisorio, ricordo che in Molise è stata messa in opera una rete simile con 50mila euro e questa cosa ha quadruplicato i dati registrati dalla sola Ingv dal 2006 al 2013. Però si sa che la prevenzione paga meno in termini di consenso elettorale». (fab.i.)