La morte di Taccone
La vita sempre in salita tra vittorie e sgomitate
Dal record delle 5 tappe vinte nel Giro del ’63 al sogno di una crono nel Fucino
AVEZZANO. Vito Taccone non era mai sceso dalla bicicletta. Aveva affrontato la vita di tutti i giorni con la stessa foga, la stessa grinta, sgomitando come quando faceva le volatone di gruppo che magari finivano con colpi di pompa sulla testa.
Una vita in salita per il Camoscio d’Abruzzo, non solo per le vittorie e i record al Giro d’Italia: in pochi hanno vinto cinque tappe in una sola edizione della corsa rosa, pochissimi possono vantare quattro tappe in quattro giorni di fila. La salita l’ha cominciata ad assaggiare quando era giovanissimo e suo padre Gaetano venne ammazzato a fucilate. Un delitto irrisolto che apriva un baratro alla famiglia di Strada 11 del Fucino.
Le corse su per il Salviano per portare il pane a Capistrello, l’umile lavoro di garzone di fornaio diventano la chiave di volta di una carriera sportiva nata sui tornanti del monte che domina Avezzano. E’ presto notato. Con una bicicletta a ruota fissa e senza cambio dà distacchi significativi a chi arranca per i tornanti con le bici da corsa.
Comincia a battersi con successo nelle corse fra dilettanti, ma c’è un problema per il gran passo fra i professionisti: non può lasciare l’aratro e il mulo (quel mulo che doperà portandolo alla morte, un “test” per non iniettarsi lui la fiala), la famiglia è piena di debiti e il lavoro della terra è indispensabile per tirare avanti una seppur grama esistenza.
Ci penserà il Veloclub Pescara a tassarsi per pagargli un contadino che gli lavori la terra mentre lui macinava chilometri su e giù per l’Italia. Il futuro scalatore sarà capace di mettere paura a Charly Gaul (vincitore di due giri) e a Federico Bahamontes (capace di fermarsi a mangiare un gelato in cima a una vetta del Tour e poi riprendere la corsa in testa).
Taccone non aveva neppure i soldi per un lecca lecca e quando ancora dilettante venne selezionato per il trofeo Yomo che si correva a Como, pernottò in un albergo di Milano e rimase stupito delle scarpe che i clienti lasciavano fuori dalla porta delle camere. Organizzò un raid, sognando di portare un bel paio di scarpe alla mamma e alle sorelle. Non fece caso ai numeri nel primo raid, così ne organizzò nottetempo un altro in un altro piano dell’hotel scegliendo i numeri giusti.
Partì in bici per Como alle sei del mattino per gungere in tempo al via della corsa che riuniva i migliori dilettanti italiani. Quando arrivò, trovò i carabinieri e dovette riconsegnare il “bottino”. La mamma era in cima ai suoi pensieri insieme ai debiti, alla mancanza di soldi per tirare avanti che lo induceva a divorare le corse, come un lupo famelico.
Un mal di denti devastante lo aggredì al primo Giro d’Italia nel 1961. Era passato professionista da pochissimi giorni e già portava scompiglio nel gruppo. Subito scoppiò la rivalità coin il conterraneo Vincenzo Meco. La leggenda del Camoscio d’Abruzzo doveva prendere corpo due anni dopo con la favolosa impresa delle cinque tappe vinte in un solo giro.
La parlantina svelta, la faccia tosta, la grinta co nla quale affrontava le grandi imprese non affuscavano un palmares che annovera il Giro di Lombardia (1961), il Giro del Piemonte (’62), il Giro di Toscana (’63), la Milano-Torino (’65) e il Trofeo Matteotti (’66). Si confrontava con grandissimi campioni, da Jacques Anquetil a Rik Van Looy, da Vittorio Adorni all’eterno secondo Raymond Poulidor.
Di secondi posti Vito ne collezionò più di quaranta, molti per scelta come ebbe a dire alla troupe di “Sfide” che gli ha dedicato uno speciale nella primavera scorsa. Si “vendette” la vittoria a un campionato italiano (’67) per l’eterna caccia ai soldi, per ritirare le cambiali della faniglia. Salvo poi dare l’anima contro Darrigade e Van Stenberger, i Petacchi e i Cipollini della sua epoca, per vincere un orologio d’oro messo in palio dal patron Salvarani felice di vedere svettare la maglia bianca del suo team sul traguardo di Parma, la sua città.
La spuntò Taccone, lasciato libero di agire a piacimento dal diesse Luciano Pezzi («Farai il jolly», gli disse. Lui non capì sulle prime: «Ma chi è stu jolly»). Le vittorie portarono la notorietà attraverso la Rai tv e Sergio Zavoli a raccontare la corsa attraverso i caratteri dei protagonisti nel “Processo alla tappa”. Ben presto Vito Taccone monopolizzò l’attezione con il suo eloquio coloratissimo e a mitraglia.
Quando ci voleva un po’ di pepe per ravvivare la trasmissione, Zavoli tirava un calcio a Taccone e il Camoscio d’Abruzzo attaccava le sue filippiche, scatenando polemiche e ravvivando così la discussione. Era tanto seguito che Salvarani gli promise 500mila lire per ogni apparizione e Vito non disdegnò qualche scazzottata al termine di una volata (concordata prima dell’arrivo con l’avversario di turno) per la sua comparsata davanti alle telecamere con “premio” annesso. Una forza della natura che riusciva a forzare anche la scorza dura del “cannibale” Eddy Merckx.
Il campionissimo belga gli permise una fuga al giro per una vittoria in Abruzzo, ma le cose andarono diversamente, Taccone arrivò secondo e Merckx perse anche la maglia rosa. Il grande campione si rammaricò più per il mancato successo di Vito che per la perdita del simbolo del primato al Giro.
Ha smesso abbastanza presto e dopo qualche stagione “calda”, aveva intrapreso l’at tività di imprenditore nel campo dei liquori con il famoso amaro la cui ricetta gli fu donata dai frati di Luco e poi nella maglieria sportiva che lo ha rilanciato nel ciclismo, gli ha fatto incontrare di nuovo vecchi amici come Merckx ma, soprattutto, grazie all’amicizia con Carmine Castellano per tantissimi anni patron del Giro d’Italia, gli ha permesso di portare con assiduità il giro in Abruzzo fino all’apoteosi della partenza da Pescara nel 2001.
Gli è rimasto inappagato il sogno di vedere ua cronometro della corsa rosa intorno al Fucino. Non una scelta a caso perché Vito, cervello fino, sapeva, da quell’animale televisivo che era diventato, che una cronometro avrebbe fatto vedere il cuore della sua Marsica più a lungo.
Una vita in salita per il Camoscio d’Abruzzo, non solo per le vittorie e i record al Giro d’Italia: in pochi hanno vinto cinque tappe in una sola edizione della corsa rosa, pochissimi possono vantare quattro tappe in quattro giorni di fila. La salita l’ha cominciata ad assaggiare quando era giovanissimo e suo padre Gaetano venne ammazzato a fucilate. Un delitto irrisolto che apriva un baratro alla famiglia di Strada 11 del Fucino.
Le corse su per il Salviano per portare il pane a Capistrello, l’umile lavoro di garzone di fornaio diventano la chiave di volta di una carriera sportiva nata sui tornanti del monte che domina Avezzano. E’ presto notato. Con una bicicletta a ruota fissa e senza cambio dà distacchi significativi a chi arranca per i tornanti con le bici da corsa.
Comincia a battersi con successo nelle corse fra dilettanti, ma c’è un problema per il gran passo fra i professionisti: non può lasciare l’aratro e il mulo (quel mulo che doperà portandolo alla morte, un “test” per non iniettarsi lui la fiala), la famiglia è piena di debiti e il lavoro della terra è indispensabile per tirare avanti una seppur grama esistenza.
Ci penserà il Veloclub Pescara a tassarsi per pagargli un contadino che gli lavori la terra mentre lui macinava chilometri su e giù per l’Italia. Il futuro scalatore sarà capace di mettere paura a Charly Gaul (vincitore di due giri) e a Federico Bahamontes (capace di fermarsi a mangiare un gelato in cima a una vetta del Tour e poi riprendere la corsa in testa).
Taccone non aveva neppure i soldi per un lecca lecca e quando ancora dilettante venne selezionato per il trofeo Yomo che si correva a Como, pernottò in un albergo di Milano e rimase stupito delle scarpe che i clienti lasciavano fuori dalla porta delle camere. Organizzò un raid, sognando di portare un bel paio di scarpe alla mamma e alle sorelle. Non fece caso ai numeri nel primo raid, così ne organizzò nottetempo un altro in un altro piano dell’hotel scegliendo i numeri giusti.
Partì in bici per Como alle sei del mattino per gungere in tempo al via della corsa che riuniva i migliori dilettanti italiani. Quando arrivò, trovò i carabinieri e dovette riconsegnare il “bottino”. La mamma era in cima ai suoi pensieri insieme ai debiti, alla mancanza di soldi per tirare avanti che lo induceva a divorare le corse, come un lupo famelico.
Un mal di denti devastante lo aggredì al primo Giro d’Italia nel 1961. Era passato professionista da pochissimi giorni e già portava scompiglio nel gruppo. Subito scoppiò la rivalità coin il conterraneo Vincenzo Meco. La leggenda del Camoscio d’Abruzzo doveva prendere corpo due anni dopo con la favolosa impresa delle cinque tappe vinte in un solo giro.
La parlantina svelta, la faccia tosta, la grinta co nla quale affrontava le grandi imprese non affuscavano un palmares che annovera il Giro di Lombardia (1961), il Giro del Piemonte (’62), il Giro di Toscana (’63), la Milano-Torino (’65) e il Trofeo Matteotti (’66). Si confrontava con grandissimi campioni, da Jacques Anquetil a Rik Van Looy, da Vittorio Adorni all’eterno secondo Raymond Poulidor.
Di secondi posti Vito ne collezionò più di quaranta, molti per scelta come ebbe a dire alla troupe di “Sfide” che gli ha dedicato uno speciale nella primavera scorsa. Si “vendette” la vittoria a un campionato italiano (’67) per l’eterna caccia ai soldi, per ritirare le cambiali della faniglia. Salvo poi dare l’anima contro Darrigade e Van Stenberger, i Petacchi e i Cipollini della sua epoca, per vincere un orologio d’oro messo in palio dal patron Salvarani felice di vedere svettare la maglia bianca del suo team sul traguardo di Parma, la sua città.
La spuntò Taccone, lasciato libero di agire a piacimento dal diesse Luciano Pezzi («Farai il jolly», gli disse. Lui non capì sulle prime: «Ma chi è stu jolly»). Le vittorie portarono la notorietà attraverso la Rai tv e Sergio Zavoli a raccontare la corsa attraverso i caratteri dei protagonisti nel “Processo alla tappa”. Ben presto Vito Taccone monopolizzò l’attezione con il suo eloquio coloratissimo e a mitraglia.
Quando ci voleva un po’ di pepe per ravvivare la trasmissione, Zavoli tirava un calcio a Taccone e il Camoscio d’Abruzzo attaccava le sue filippiche, scatenando polemiche e ravvivando così la discussione. Era tanto seguito che Salvarani gli promise 500mila lire per ogni apparizione e Vito non disdegnò qualche scazzottata al termine di una volata (concordata prima dell’arrivo con l’avversario di turno) per la sua comparsata davanti alle telecamere con “premio” annesso. Una forza della natura che riusciva a forzare anche la scorza dura del “cannibale” Eddy Merckx.
Il campionissimo belga gli permise una fuga al giro per una vittoria in Abruzzo, ma le cose andarono diversamente, Taccone arrivò secondo e Merckx perse anche la maglia rosa. Il grande campione si rammaricò più per il mancato successo di Vito che per la perdita del simbolo del primato al Giro.
Ha smesso abbastanza presto e dopo qualche stagione “calda”, aveva intrapreso l’at tività di imprenditore nel campo dei liquori con il famoso amaro la cui ricetta gli fu donata dai frati di Luco e poi nella maglieria sportiva che lo ha rilanciato nel ciclismo, gli ha fatto incontrare di nuovo vecchi amici come Merckx ma, soprattutto, grazie all’amicizia con Carmine Castellano per tantissimi anni patron del Giro d’Italia, gli ha permesso di portare con assiduità il giro in Abruzzo fino all’apoteosi della partenza da Pescara nel 2001.
Gli è rimasto inappagato il sogno di vedere ua cronometro della corsa rosa intorno al Fucino. Non una scelta a caso perché Vito, cervello fino, sapeva, da quell’animale televisivo che era diventato, che una cronometro avrebbe fatto vedere il cuore della sua Marsica più a lungo.