Pescara, la polizia schiera la super-squadra contro il femminicidio
Il capo della Mobile Muriana spiega il piano contro le violenze sulle donne. «Nei sistemi informatici registriamo tutte le telefonate di aiuto e le liti familiari»
PESCARA. Li chiamano «interventi per liti in famiglia». Ma spesso, dietro questa espressione generica, si nascondono aggressioni e maltrattamenti. Reati complessi che si consumano tra le mura domestiche, in uno spazio ristretto in cui la vittima e il suo aggressore sono uniti saldamente da vincoli sentimentali, giuridici e psicologici.
Un insieme di fattori che porta chi subisce violenze a minimizzare e nascondere, anziché uscire allo scoperto e denunciare. Pur in presenza di una normativa specifica, che dal 2013 prevede l'allontanamento d'urgenza dalla casa familiare e l'arresto obbligatorio in flagranza per i reati di maltrattamento e atti persecutori, gli agenti di polizia si ritrovano con le mani legate, poiché per far scattare le manette la legge prevede l'obbligo di un precedente. È da questo vuoto legislativo che nasce il protocollo Eva, il cui acronimo sta per "Esame delle violenze agite".
Definito come «il più avanzato progetto in Italia per il contrasto delle violenze domestiche», è stato sperimentato con successo dalla questura di Milano e, da gennaio, è stato esteso anche a Pescara.
A riferirlo, nel convegno "Femminicidio, i perché di una parola", organizzato ieri nella sala Tinozzi della Provincia da Ugl e Enas, è il capo della squadra Mobile Pierfrancesco Muriana. All'incontro, introdotto da Giovanna De Amicis, segretario Ugl Abruzzo, sono intervenuti anche la criminologa Monica Di Sante, la deputata Renata Polverini, la consigliera regionale di parità Alessandra Genco, il presidente Enas Stefano Cetica ed Ezio Favetta, segretario confederale Ugl. I dati nazionali sul femminicidio mostrano una realtà drammatica: il numero di abusi fisici o sessuali è salito a 6.780.000. Solo nel 2015 le donne uccise sono state 128, a fronte delle 319 nel triennio dal 2012 al 2014, di cui 209 in ambito familiare. Tuttavia, soltanto una donna su 10 denuncia le violenze.
«Gli agenti addetti al controllo del territorio», spiega Muriana, «oggi quando intervengono per una lite in famiglia, a prescindere se sia seguita o no da denuncia o querela, devono lasciare una traccia nei nostri sistemi informatici. Al termine dell'intervento compilano una scheda, inserendo una serie di dati utili a comprendere ciò che è accaduto, che finisce direttamente nel nostro archivio. Così, in caso di intervento successivo di polizia o carabinieri, il precedente è noto e si può procedere d'ufficio nei confronti dell'aggressore».
In questo modo, si libera la vittima dal peso di dover denunciare il marito o compagno, eliminando il senso di colpa e il timore di subire ulteriori minacce. C'è anche la possibilità di registrare l'utenza telefonica da cui è arrivata la chiamata. Gestire un intervento di lite in famiglia richiede competenza, ma anche sensibilità e intuito: doti che hanno tante donne. Nella nostra sezione speciale per la gestione dei reati contro la violenza di genere e contro i minori, su 8 agenti in servizio ben 3 sono donne».
Un altro aspetto delicato riguarda le "vittime secondarie" del femminicidio, ossia i figli. Nel 2015, gli orfani da femminicidio sono stati 118. «Il carnefice», spiega Di Sante, «vive la relazione in maniera frustrante, ha mancanzadi empatia, non si accorge che gli altri soffrono. Non è gelosia impedire la libertà di una persona, non è amore se produce ingabbiamento e impossibilità di scelta».