«Violata nel corpo e nell’anima Alle donne dico: ribellatevi»

26 Novembre 2024

Parla Filomena Lamberti, la prima a essere stata sfregiata con l’acido dal marito

È una lunga e sottile agonia. Non scompare con il tempo, semmai si affievolisce. Sfuma nei contorni di un passato che ritorna, prepotente, riflesso nello specchio. Filomena Lamberti, 66 anni, salernitana, è la prima donna in Italia sfregiata con l'acido per mano del marito. L'Abruzzo, lo scorso anno, le ha tributato il premio nazionale Donna Onlus Antonio Padovani per aver trovato la forza di rinascere, nonostante tutto. «Avevo il volto sfigurato, il petto corroso dall'acido, ma sapevo che da quel momento sarei stata libera». La storia di Filomena s'intreccia con quella di tante altre donne vittime di maltrattamenti, soprusi, costrizioni. Donne abusate, violate, uccise nel corpo e nell'anima.
Quando è iniziato l'incubo?
Molto prima del 28 maggio 2012, il giorno dell'aggressione. Già dai primi anni di fidanzamento c'era qualcosa che non andava. Non voleva che frequentassi le amiche, che mi truccassi o indossassi la minigonna. Era geloso, possessivo. Mi sentivo soffocare, come fossi chiusa in una gabbia.
Perché non lo ha lasciato subito?
Come tutte le donne, mi illudevo di poterlo cambiare. All'età di 21 anni sono rimasta incinta del primo figlio: pensavo che la paternità lo avrebbe addolcito, che gli equilibri familiari sarebbe mutati a mio favore. Questo cambiamento non c'è stato, neppure con il secondo e terzo figlio.
Cosa intende dire?
Era sempre il solito copione: di fronte ad un episodio di gelosia eccessiva, di controllo, di isolamento, puntuali arrivavano le scuse. E io le accettavo.
Era succube di suo marito?
Man mano che passavano gli anni, come tutti gli uomini possessivi, è stato capace di estraniarmi dal resto del mondo. Mi voleva isolare da tutto e da tutti, persino dalla mia famiglia.
Ci è riuscito?
Sì, anche se ci è voluto del tempo. L'unica persona che riusciva a tenergli testa era mio padre: una volta lo ha minacciato con la pistola che utilizzava quando era di turno al porto, come guardiano. E' morto a 64 anni, io ne avevo appena trenta. Con lui è caduto anche quel piccolo muro protettivo che avrebbe potuto salvarmi. E sono qui a raccontare un'altra storia.
E sua madre?
Non lo ha mai potuto digerire, ma era una donna algida, ferrea. Quando le ho chiesto aiuto mi ha detto: “Lo hai voluto, adesso te lo devi tenere”. Da allora, non le ho raccontato più nulla.
Era rimasta sola?
Sì, con il mio dolore e le mie angosce quotidiane.
Non ha avuto campanelli d'allarme evidenti prima della tragedia?
Ho sopportato per 30 anni per far crescere i miei figli. Non avevo un'indipendenza economica, mi sentivo in un vicolo cieco. Uno sguardo per strada, anche casuale, ed ero io – nella sua testa ––ad averlo provocato. La malafemmena. Lavorando 25 anni insieme nella pescheria, bastava un complimento ingenuo di un cliente e, tornati a casa, scoppiava il putiferio.
La picchiava?
Si iniziava con la violenza verbale. Mi chiamava puttana davanti ai miei figli: sapevo di non esserlo e non potevo stare zitta.
Lei che avrebbe fatto?
Così, alle mie rimostranze, rispondeva con le botte. I miei figli hanno vissuto un clima di violenza quotidiana. Io volevo solo proteggerli.
Per questo non l'ha denunciato?
Facevo finta di nulla. Loro non mi hanno mai vista piangere: mi mettevo a giocare con i miei tre bambini, li distraevo. Questo rendeva tutto normale ai loro occhi, la scelta più sbagliata.
E quando sono cresciuti è cambiata la situazione?
Nel 2011 il mio primo figlio, che allora aveva trent'anni, mi ha detto chiaramente che dovevo prendere una decisione. Non era più possibile andare avanti in quel clima di terrore.
E' stato allora che ha deciso di separarsi?
Sono state quelle parole a indurmi a prendere la decisione definitiva. Dovevo lasciarlo e gliel'ho detto senza mezzi termini.
Qual è stata la sua reazione?
Era il 28 maggio 2012. La sera prima gli avevo comunicato la fine della nostra relazione. Non c'era più nulla da aggiungere: volevo separarmi. Alle 4 del mattino sono stata svegliata dalla voce del mio ex marito che mi diceva: guarda che ti do. È stato un attimo. Mi ha gettato una bottiglia di acido solforico sul volto e sul petto. Ho capito subito che si trattava di acido solforico perché lo usavo per sturare i tubi in pescheria. La mia esistenza, in quel momento, è cambiata per sempre.
Che ricordi ha di quei momenti concitati?
A dare l'allarme è stato il mio secondo figlio, che era in casa. Provavo un dolore lancinante per tutto il corpo, ma non sono mai svenuta. Mi hanno trasportata prima all'ospedale di Salerno, poi al Centro grandi ustionati di Napoli e lì è iniziato il mio calvario.
Quanto è durato?
Quello sanitario cinque anni, dentro e fuori dall'ospedale. Ho subìto più di trenta operazioni nel tentativo di recuperare il recuperabile. Quello che vedete oggi e che mi riflette lo specchio. Un'immagine diversa dal passato. Un'altra me.
Era più insopportabile il dolore fisico o quello psicologico?
All'inizio il dolore fisico. Quando ho preso piena coscienza dell'accaduto, è arrivata la parte più difficile: aprire gli occhi e vedere quello che aveva combinato.
Dove ha trovato la forza di reagire?
Dalla consapevolezza di essere viva, di non essere finita nel lunghissimo elenco di vittime di femminicidio. La mia forza è venuta, soprattutto, dal fatto che sapevo, da quel momento, di essere libera. Seppure a caro prezzo, anche con la mia identità violata. Non mi sono mai curata dei pregiudizi, degli sguardi di compassione per strada. Diversamente, avrei fatto il suo gioco: mi sarei chiusa in casa senza più contatti con il mondo esterno. Sarebbe stato come morire. Non potevo dargliela vinta.
A fronte di tutto ciò, qual è stata la pena inflitta al suo ex marito?
Appena 15 mesi di carcere. Non sono mai stata ascoltata dai giudici, nessuno ha visto ciò che mi era stato fatto. Dopo poco più di un anno lui era già libero.
Oggi com'è la vita di Filomena?
Dal 2014 giro le scuole di tutta Italia, partecipo a convegni e manifestazioni per sensibilizzare le donne a non cedere, a non subire passivamente la violenza, a non fare il mio stesso errore. Al primo segnale si deve fuggire, soprattutto se ci sono figli minori, chiedere aiuto e protezione. Perché gli uomini violenti non cambiano. Mai.