Il riscatto di Germano, l’ex detenuto modello salvato grazie al calcetto
Dal carcere alla riabilitazione, Capasso si racconta in un’intervista. Anche il Papa ha stretto la mano al capitano della Libertas Stanazzo
LANCIANO. Storia di riscatto e di sport. Un’adolescenza che prometteva un brillante futuro, poi un passaggio a vuoto fino a cadere nella criminalità. Ma si sa, la vita è imprevedibile e quella di Germano Capasso può essere presa come modello di riferimento per quanti vogliano rialzarsi dopo ogni caduta. Ex detenuto della casa circondariale di Lanciano e, soprattutto, capitano della squadra di calcio a 5 della Libertas Stanazzo, nata nel 2014 su iniziativa della Lnd, Capasso, dopo aver scontato la sua pena, racconta la propria redenzione passata anche attraverso lo sport.
Per rileggere un libro non si può non partire dalla copertina. Quali sono state le sue origini?
«Io sono di Villa Bianca al Vomero, mi piace definirmi un napoletano doc. Mio padre era un avvocato penalista, a dimostrazione di quanto la vita sappia essere anche ironica. Lavorava all’Inail a Piombino. Mia madre, invece, era casalinga ed insieme decisero di farmi nascere a Napoli, aiutati anche dalle loro famiglie. Infatti, una volta dimessa dall’ospedale, tornammo in Toscana fin quando, dopo cinque anni, papà ottenne il trasferimento per riavvicinarsi a casa ed andammo a vivere a Giuliano, una terra ormai famosa negativamente per quanto ha raccontato Saviano».
Pare una vita ordinaria, vero?
«Assolutamente sì, crescendo non c’era nulla che andasse male. La mia adolescenza è stata precisa e perfetta, mi sono diplomato a Napoli e, seguendo le orme di mio padre, mi sono iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza sempre in città. Diedi anche dodici esami, molti dei quali davvero complicati. Nel mentre giocavo a calcio, ero abbastanza bravo ed arrivai fino alla serie C con il Giuliano. Ero lanciato in una vita piena e realizzata ma, purtroppo, decisi di essere l’unico str...o ad avere problemi con la giustizia».
Da come parla sembra che fosse imminente un evento che avrebbe cambiato le carte in tavola…
«Diciamo di sì. Conobbi una ragazza di cui m’innamorai subito. Le nostre famiglie non erano favorevoli alla relazione così decidemmo di fare la famosa “fuitina” lasciando casa e vivendo insieme. Col tempo i nostri genitori accolsero il fatto e finalmente ci sposammo. Avevo 23 anni, studiavo ancora e, per mantenermi con gli studi, già da tempo lavoravo in un panificio. Però con il matrimonio avevo altre responsabilità, quindi lasciai l’università. Forse, per colpa del dio denaro, mi feci attrarre dalla possibilità di fare soldi facili e veloci, entrando in un giro sbagliato. All’inizio era quasi come un gioco, vivevo due vite parallele: di giorno lavoravo in panificio, una vita ordinaria, quella di sempre. Di notte avevo altri giri, specie nello spaccio. Condussi questa vita per diversi anni».
Fino a quando?
«Fino ai 30 anni, quindi nel 2001. Poi le cose si aggravarono e nel 2006 mia moglie mi scoprì, lasciando casa insieme a nostro figlio Emanuele. Andò via a Brescia, dalla sua famiglia. Rimasto solo, mi sono sentito un cane sciolto e posso dire di essere caduto a picco».
Cosa è accaduto?
«Ho vissuto totalmente la strada fin quando venni arrestato con il reato di spaccio. Essendo incensurato, fui agli arresti domiciliari e, poco dopo, ho ricevuto l’avviso di garanzia con l’accusa di associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti, collegato con il clan dei Casalesi e dei Maliardo, ancora molto influenti a Napoli».
Da qui inizia il suo esodo in giro per l’Italia?
«Si, sono stato in carcere per 10 anni ed 8 mesi. Ho scontato tutto il mio debito con la giustizia».
Come è arrivato a Lanciano?
«Ho girato diverse case circondariali fin quando mi hanno inserito nel carcere di massima sicurezza proprio a Lanciano».
Come ha vissuto l’esperienza del carcere, visto che è ormai notizia di cronaca la condizione precaria della vita dei detenuti?
«Devo dire che, essendo una persona acculturata, sia stato più semplice allontanarmi dal mondo della malavita. Non avevo vincoli di famiglia, ero la pecora nera sì ma ero solo. Per altri che sono immischiati fino al collo con la criminalità non è semplice uscirne. Restavo giornate intere da solo in stanza ma a me non piaceva quella vita. C’è una regola non scritta per la quale un detenuto in regime di massima sicurezza che è legato alla mafia non è tenuto a lavorare, gli altri ti “proteggono” evitandoti lavori particolarmente pesanti».
Anche per lei?
«Certo che sì. Ma, come dicevo, io cercavo un modo per dare senso alle mie giornate e, soprattutto, volevo davvero essere rieducato, cambiare vita. Così, dato che mi sono sempre presentato come una persona disponibile ed aperta all’aiuto, l’equipe di psicologi ed educatori del carcere hanno visto in me la buona volontà, proponendomi molte iniziative e chiedendomi di coinvolgere anche altri».
Qui arriviamo al punto: nel 2014 il Comitato regionale della Lnd vara il progetto “Mettiamoci in gioco”, per sensibilizzare l’inclusione e la riabilitazione dei detenuti frentani attraverso la costituzione di una squadra di calcio a 5, la Libertas Stanazza, iscritta tutt’ora al campionato di serie D.
«Come ti ho detto all’inizio, a me piaceva tantissimo giocare a calcio. Ero anche un prospetto interessante, prima di mollare tutto. Ma, come me, in carcere ci sono molti detenuti che, se non avessero scelto la malavita, avrebbero potuto sfondare nello sport essendo molto bravi. Mi chiesero una mano per costruire la squadra, divenni capitano e presentai la lista alla direzione. Vi potevano partecipare solo i detenuti di massima sicurezza. Io giocai per due anni perché nel 2016 sono uscito definitivamente dal carcere. L’ultimo anno di detenzione, in regime di semilibertà, iniziai a lavorare alla D’Orsogna Dolciaria dove tutt’ora sono impiegato. Questo è stato veramente un regalo che la vita mi ha fatto passando per Lanciano».
Si può spiegare meglio?
«Si parla tanto di rieducazione e di quanto il carcere debba aiutarti a reinserirti nella società. Però, nella pratica, ci sono tante case circondariali in Italia che non sono minimamente strutturate. Lanciano è quasi un’eccezione perché puoi fare tante cose come lavorare in cucina, in biblioteca, fare laboratori di ceramica e, soprattutto, lo sport. Non vedevo l’ora che arrivasse l’ora dell’allenamento perché, insieme al lavoro, ero sempre impegnato, evitando anche situazioni spiacevoli».
Ad esempio?
«Quando sei in cattività e non hai nulla da fare, basta un piccolo pretesto per far scoppiare litigi o, peggio, le risse».
Lei nel 2016 ha scontato la sua pena ed è tornato alla vita quotidiana. Le è capitato di seguire la squadra o, almeno, di restare in contatto con quel mondo?
«Assolutamente sì. Ho un ottimo rapporto con la dott.ssa Maria Luisa Vantaggiato, attuale direttrice del carcere di Vasto ed Ancora. Quando ero detenuto, dirigeva quello di Lanciano e fino a pochi mesi fa mi ha chiamato per farmi dare la mia testimonianza davanti agli studenti del Nautico ad Ortona. In generale sono tornato un paio di volte al carcere. Ti dico una cosa in più perché ci tengo tanto. Nel 2016, appena uscito, ho ricevuto un invito da papa Francesco per un’udienza a Roma. Arrivato lì, il pontefice mi ha chiesto: “Germano, come hai fatto ad uscire da quei tentacoli?”. Io, ridendo, gli ho detto: “Santo Padre, ho messo tutto me stesso e la volontà di cambiare ha prevalso”. Ti dico questo perché vorrei davvero che la mia storia possa essere utile e d’aiuto a quanti si sono trovati nelle mie condizioni».
Oggi, com’è la sua vita?
«Ho una splendida compagna che mi ama tanto. Sono conduttore della linea Ferrero alla Dolceria e mi godo le mie giornate a Lanciano».
Ha mai pensato di riprendere gli studi?
«Tante volte quando ero in carcere mi sarebbe piaciuto. Purtroppo, essendo passati più di dieci anni dal mio ultimo esame, avrei dovuto iniziare da capo. Ora faccio un lavoro duro e non ho più la freschezza mentale di quando ero ventenne».
Però, come si è capito dalla sua storia, mai dire mai.
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