Teramo
Processo ex Tercas: Sora e Pilla confermano l'accusa a Di Matteo
Truffa delle azioni, in tribunale le testimonianze del commissario di Bankitalia e dell'ex direttore generale
TERAMO. Quelle operazioni di pronti contro termine proposte dalla ex Banca Tercas ai clienti erano fittizie. Uno specchietto per le allodole utilizzato per convincerli ad effettuare un investimento “garantito” che in realtà era un semplice acquisto diretto di azioni Tercas, con tutti i rischi connessi. La natura quanto meno anomala di quelle operazioni finanziarie è stata confermata ieri in tribunale dall’ex direttore generale Dario Pilla, subentrato nel febbraio 2012 ad Antonio Di Matteo dopo le dimissioni di quest’ultimo e, soprattutto, di Riccardo Sora, diventato commissario di Bankitalia nel maggio 2012, entrambi testimoni di accusa nel processo per la presunta truffa delle azioni, avvenuta a metà del 2011. Il processo vede imputati Di Matteo e altre 27 persone, tra ex dirigenti, quadri intermedi e direttori di filiale, mentre la Banca Popolare di Bari, attuale proprietaria del marchio Tercas, si è costituita parte civile.
Ai clienti – hanno riferito i testimoni in aula – veniva offerta la vendita di azioni Tercas con l’impegno da parte della banca di riacquistarle dopo un anno riconoscendo un interesse del 3 per cento netto. Prospettata in questo modo era quindi un’operazione di pronti contro termine e anche parecchio vantaggiosa, visto che, come ha ricordato Sora, all’epoca i Bot garantivano un interesse del 2,15% lordo, ma nella contabilità della banca tutto questo non risultava. Tranne alcuni casi, nel contratto di vendita l’impegno al riacquisto e la garanzia dell’interesse non era formalizzato: semplicemente, su un foglio di carta consegnato insieme al contratto, scritto a mano e spesso neanche firmato, venivano indicate la data del presunto riacquisto e la percentuale dell’interesse. Ma solo nella copia rilasciata ai clienti: in quella della banca non c’era nulla.
E così, nel maggior parte dei casi, i clienti diventati a loro insaputa azionisti Tercas – una settantina sparsi in 33 filiali – dopo la sospensione della negoziazione del titolo in seguito al commissariamento e dopo il definitivo azzeramento del capitale sociale si ritrovano in mano solo carta straccia. Non sempre, però. Sora ha riferito di un cliente che aveva acquistato azioni per 600mila euro che è stato rimborsato perché in grado di esibire un documento firmato da un direttore di filiale in cui la banca si impegnava al riacquisto e alla corresponsione dell’interesse. Nella maggior parte degli altri casi, invece, nessun rimborso. Quando alla scadenza del presunto riacquisto delle azioni cominciarono ad arrivare i reclami dei clienti che chiedevano alla banca di onorare l’impegno preso, «la prima risposta data alla clientela», ha detto Sora, «fu che l’investimento da loro sottoscritto non era di pronti contro termine ma di vendita di azioni a fermo» e quindi la Tercas non aveva alcun obbligo nei loro confronti.
Ma perché Di Matteo e gli altri dirigenti avevano effettuato questa campagna di vendita di azioni proprie spacciandola per pronti contro termine, una vendita massiccia visto che stiamo parlando di un valore di oltre 17 milioni di euro? Pilla e Sora hanno dato la stessa risposta: la banca aveva bisogno di alleggerirsi di azioni proprie per non alterare il patrimonio di vigilanza, quello che la Banca d’Italia considera come misura della rischiosità degli istituti di credito. Se fosse stata una vera operazione di pronti contro termine «quelle azioni», ha detto Pilla, «sarebbero rimaste nella “pancia” della banca», giacché dovevano essere riacquistate, intaccando così l’equilibrio patrimoniale. Un altro elemento emerso nel corso dell’udienza è quello relativo alla profilazione dei clienti, con la compilazione del questionario che serve a valutare il grado di propensione al rischio finanziario: le risposte date dai clienti sarebbero state modificate in modo da far coincidere il loro profilo di investitori con il rischio connesso all’acquisto di azioni, cosa ben diversa dalla più prudente e garantita operazione di pronti contro termine che loro credevano di avere sottoscritto.
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Ai clienti – hanno riferito i testimoni in aula – veniva offerta la vendita di azioni Tercas con l’impegno da parte della banca di riacquistarle dopo un anno riconoscendo un interesse del 3 per cento netto. Prospettata in questo modo era quindi un’operazione di pronti contro termine e anche parecchio vantaggiosa, visto che, come ha ricordato Sora, all’epoca i Bot garantivano un interesse del 2,15% lordo, ma nella contabilità della banca tutto questo non risultava. Tranne alcuni casi, nel contratto di vendita l’impegno al riacquisto e la garanzia dell’interesse non era formalizzato: semplicemente, su un foglio di carta consegnato insieme al contratto, scritto a mano e spesso neanche firmato, venivano indicate la data del presunto riacquisto e la percentuale dell’interesse. Ma solo nella copia rilasciata ai clienti: in quella della banca non c’era nulla.
E così, nel maggior parte dei casi, i clienti diventati a loro insaputa azionisti Tercas – una settantina sparsi in 33 filiali – dopo la sospensione della negoziazione del titolo in seguito al commissariamento e dopo il definitivo azzeramento del capitale sociale si ritrovano in mano solo carta straccia. Non sempre, però. Sora ha riferito di un cliente che aveva acquistato azioni per 600mila euro che è stato rimborsato perché in grado di esibire un documento firmato da un direttore di filiale in cui la banca si impegnava al riacquisto e alla corresponsione dell’interesse. Nella maggior parte degli altri casi, invece, nessun rimborso. Quando alla scadenza del presunto riacquisto delle azioni cominciarono ad arrivare i reclami dei clienti che chiedevano alla banca di onorare l’impegno preso, «la prima risposta data alla clientela», ha detto Sora, «fu che l’investimento da loro sottoscritto non era di pronti contro termine ma di vendita di azioni a fermo» e quindi la Tercas non aveva alcun obbligo nei loro confronti.
Ma perché Di Matteo e gli altri dirigenti avevano effettuato questa campagna di vendita di azioni proprie spacciandola per pronti contro termine, una vendita massiccia visto che stiamo parlando di un valore di oltre 17 milioni di euro? Pilla e Sora hanno dato la stessa risposta: la banca aveva bisogno di alleggerirsi di azioni proprie per non alterare il patrimonio di vigilanza, quello che la Banca d’Italia considera come misura della rischiosità degli istituti di credito. Se fosse stata una vera operazione di pronti contro termine «quelle azioni», ha detto Pilla, «sarebbero rimaste nella “pancia” della banca», giacché dovevano essere riacquistate, intaccando così l’equilibrio patrimoniale. Un altro elemento emerso nel corso dell’udienza è quello relativo alla profilazione dei clienti, con la compilazione del questionario che serve a valutare il grado di propensione al rischio finanziario: le risposte date dai clienti sarebbero state modificate in modo da far coincidere il loro profilo di investitori con il rischio connesso all’acquisto di azioni, cosa ben diversa dalla più prudente e garantita operazione di pronti contro termine che loro credevano di avere sottoscritto.
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