Teramana nell’incubo di Mayotte, l’isola devastata dal ciclone: “Incalcolabili i morti”

Giulia Amato, ginecologa di 34 anni, è in servizio nell’ospedale dell’isola devastata da un ciclone: “Raffiche di vento a 220 all’ora, è saltato il tetto e ci siamo ritrovati al buio,il reparto maternità si è allagato e l’acqua è arrivata alle caviglie. Avevamo paura di morire tutti”.
TERAMO. «Il buio completo, l’acqua fino alle caviglie e raffiche di vento e pioggia a 220 chilometri l’ora: abbiamo avuto paura di morire tutti». Giulia Amato, teramana 34enne, medico all’ospedale di Mayotte, racconta così i tragici momenti in cui sabato un ciclone ha investito l’isola tra Madagascar e Mozambico, territorio francese d’oltremare nell’arcipelago delle Comore. «Ero in ospedale insieme ai miei colleghi, ci è crollato il tetto addosso», così la ginecologa ripercorre nella memoria i fotogrammi di quei minuti di panico, «il reparto di maternità si è allagato, sono saltate porte e finestre». L’arrivo del ciclone era annunciato: nei giorni e nelle ore precedenti erano stati diramati diversi allarmi. «Si sapeva che dal Madagascar si sarebbe diretto verso il Mozambico attraversando Mayotte», ricorda Giulia, «l’allerta inizialmente arancione è diventata rossa e poi viola: fin dal venerdì sera è scattato il coprifuoco, con divieto di uscire di casa, e sono stati predisposti centri di accoglienza per chi aveva abitazioni a rischio».
La furia di acqua e vento, però, ha spazzato via tutto, danneggiando gravemente l’ospedale ma anche l’aeroporto, dove tutt’ora atterrano solo voli militari per i soccorsi, e riducendo a un enorme ammasso di lamiere le bidonville che circondano la capitale Mamoudzou. Tra le baracche divelte il ciclone ha mietuto il maggior numero di morti, con un effetto che resta ancora incalcolabile. «Quelle zone, che si trovano in collina, restano al momento inaccessibili ai soccorritori perché muoversi tra le macerie senza mezzi adeguati è pericoloso e perché continua a piovere e c’è il rischio di smottamenti. Ci sono state ricognizioni in elicottero, ma nessun segno di vita è stato rilevato tra le lamiere».
Nelle bidonville vivevano circa 100mila persone, in gran parte immigrati irregolari. «Per questo quasi nessuno di loro si è rifugiato nei centri di accoglienza, temevano conseguenze per il fatto di essere senza documenti», spiega Giulia, «sono rimasti lì e sono stati travolti, non è rimasto nulla». Si calcola che anche tra il 70 e il 90 per cento delle abitazioni abbia subito danni. «Le aree a nord e sud sono isolate, le strade sono impercorribili per gli alberi caduti e le macerie: nelle prime 24 ore non c’era modo neppure di arrivare in ospedale». Il reparto di maternità, il più grande d’Europa con 10mila parti l’anno gestiti, è finito sott’acqua tanto da render necessaria l’evacuazione dei pazienti. «Non è stato possibile assicurare le terapie per i malati cronici, gli uffici sono stati spostati lungo i corridoi e abbiamo potuto trattare solo le emergenze, ma siamo in carenza di farmaci e sangue». Massiccio l’afflusso di feriti non tanto per i danni causati dal ciclone, quanto per le conseguenze di violente proteste e aggressioni. Il cataclisma è stato seguito da episodi di sciacallaggio. «Ci sono stati scontri con lanci di pietre e casi di documenti sottratti ai morti per impossessarsi delle loro identità e risultare in regola», riferisce ancora Giulia. Anche la religione non è stata di aiuto. «Sono musulmani e devono seppellire i defunti entro 24 ore, in molti sono venuti in ospedale per chiedere certificati di morte, ma non era verificabile dove fossero le salme». Il blocco operatorio, compresa la sala per i parti cesarei, ha ripreso a funzionare, ma l’emergenza igienico-sanitaria è destinata ad aggravarsi. «Non c’è energia elettrica né acqua potabile e inizia a scarseggiare anche il cibo: chi aveva alberi da frutto ha perso l’unica fonte di sostentamento», prosegue la ginecologa, «i primi aiuti sono arrivati con aerei militari e per domenica è attesa una nave, ma l’esasperazione della gente senza cibo né acqua rischia di sfociare in ulteriori violenze».
Giulia, da sei mesi a Mayotte, ieri si sarebbe dovuta trasferire nell’ospedale di La Réunion, altra isola nell’Oceano Indiano sotto giurisdizione francese, ma l’aeroporto funziona appena per le emergenze. «La torre di controllo e la pista sono gravemente danneggiate, arrivano solo voli militari». Lo scalo, tra l’altro, è su un’isola attigua a quella dove si trova la capitale e raggiungibile di norma in traghetto. Anche le imbarcazioni sono state schiantate dal ciclone. «Ne sono da poco ripartite una o due, ma servono per il trasporto dei feriti». Giulia per ora resta a Mayotte. «Continuo a lavorare in ospedale, qui c’è bisogno di tutti».
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