ABORTO

Aborto negato in Abruzzo: per farlo Maria deve andare a Torino

30 Marzo 2025

Lei ha 26 anni e ha preso una scelta, ma è stata costretta ad andare fuori regione. Per esercitare un suo diritto

VASTO. Dover cambiare regione, addirittura salire su fino a Torino, per esercitare un suo diritto. Perché abortire in Abruzzo nel 2025 è difficile: serve trovare un medico non obiettore. È la storia di Maria (nome di fantasia), 26 anni e una scelta presa in piena consapevolezza. Ogni giorno percorre quasi 200 chilometri per il suo lavoro da magazziniera a Pescara. Lo stipendio è precario e il compagno si trova più o meno nella stessa situazione. Per questo, quando nella fessura del test sono apparse le due linee, lei e il suo partner non hanno avuto dubbi: «Un figlio? Non se ne parla proprio. Né io né il mio compagno lo vogliamo», racconta la ragazza in un’intervista alla Stampa. A rendere pubblica la sua storia è stato il Collettivo Zona Fucsia, a cui si è rivolta dopo il trattamento che ha ricevuto qui in Abruzzo. La Regione dove vive e lavora.

la storia

Dopo essere risultata positiva al test, Maria va dal suo medico di base e si fa prescrivere l’esame che rileva le Beta-hcg nel sangue (il valore che determina la gravidanza). Il passo successivo è andare all’ospedale di Vasto per attivare la procedura di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), un suo diritto. Ma quando arriva all’ospedale si capisce subito che non sarà facile: «Non appena ho detto che volevo abortire hanno strabuzzato gli occhi. Anche se c’ero solo io, mi hanno portata in corridoio. Mi hanno chiesto quando avevo avuto le ultime mestruazioni e poi mi hanno detto che in quella Asl non avrei potuto abortire perché mancavano medici non obiettori». Ma aggiungono qualcos’altro: «Poi mi hanno detto che, nonostante il test del sangue, ancora non c’era certezza che fossi incinta. E che quindi dovevo fare quell’ecografia in cui senti il battito del feto». Una procedura inusuale. E infatti anche Maria si stranisce: «Qualcosa di questo discorso non mi tornava. Quando poi mi hanno detto che sarei dovuta tornare dopo due settimane perché era troppo presto, mi sono proprio arrabbiata: ero quasi alla sesta settimana. Troppo presto rispetto a che? Cosa c’era da aspettare?». Un’esperienza dalla quale Maria è uscita «estremamente a disagio. Mi sono sentita giudicata». E tutto questo nel tentativo di esercitare un suo diritto.

FUGA FUORI REGIONE

Cosa fare a questo punto? Il primo pensiero è di chiedere aiuto a un’altra donna, la sua ginecologa, che sa bene come funzionano le cose qui. Lei le consiglia di lasciar perdere l’Abruzzo: «Mi ha indicato l’Asl di Campobasso, in Molise, per fare l’interruzione di gravidanza», racconta Maria. La chiamata per la prenotazione ha confermato i dubbi che aveva avuto nel suo colloquio all’ospedale di Vasto: «Nessuno mi ha chiesto un’ecografia o di aspettare. Mi è bastato fare una telefonata e poco dopo mi hanno fissato un appuntamento per il 31 marzo. Devo portare il referto dell’esame delle Beta-Hcg e il certificato del medico base che attesti che sono incinta e che voglio interrompere». Alla fine, per accedere a un servizio pubblico ha dovuto accettare di farsi 200 chilometri. Come se dovesse andare a lavoro. Che tra l’altro svolge con qualche difficoltà in più, perché «mi sono iniziate le nausee». «Per andare a Vasto ci avrei messo un quarto d’ora. Per Campobasso servono tre ore di treno o una di macchina», prosegue la donna, «come ci andrò? Penso in macchina. Vorrei farlo la mattina presto e a quell’ora non ci sono treni disponibili. Ma almeno posso fare l’aborto farmacologico: non devo essere ricoverata». C’è un altro particolare in questa vicenda, che rende l’idea di quanto il problema dei medici obiettori sia concreto. Maria ha deciso di aprirsi la possibilità di abortire anche a Torino: «È sempre meglio tenersi diverse porte aperte. Non si sa mai».

LA VERSIONE DELLA ASL

Dopo la denuncia del Collettivo è arrivata la risposta del direttore del reparto di ostetricia-ginecologia della Asl di Vasto, Gabriele D’Egidio, che ha precisato che «è prassi effettuare il certificato che avvia all'interruzione dopo aver fatto una ecografia che accerta lo stato di gravidanza. La donna è stata trattata come tutte le altre. Le sono state date le informazioni dovute, che identificano un percorso», ha aggiunto, «e a quello ci si deve attenere. Si fa l'ecografia, si compila il certificato e si indirizza la donna all'ospedale che pratica l’interruzione volontaria di gravidanza, che a Vasto è temporaneamente sospesa per mancanza di medici non obiettori». In altre parole, la conferma che Maria non poteva abortire dove avrebbe voluto.

IL ruolo del COLLETTIVO

Contattata dal Centro, Benedetta La Penna, membra del Collettivo Zona Fucsia, che assiste le donne che vogliono abortire, ha spiegato che quella dell’ecografia con battito del feto «non è una prassi obbligatoria, ma sta diventando una pratica diffusa per scoraggiare chi sceglie di abortire. Allungare i tempi dell’Ivg è una strategia per rendere il percorso più difficile e stressante. La questione del battito del feto», ha proseguito, «è scientificamente scorretta. È una manipolazione emotiva usata per colpevolizzare chi sta prendendo una decisione». Per quello che riguarda l’Abruzzo, secondo La Penna il caso di Maria è «emblematico. Certifica quelli che sono i problemi in questa regione: mancano i medici non obiettori e non ci sono informazioni chiare su come e dove poter abortire. In che modo Maria poteva sapere che per interrompere la gravidanza non doveva andare a Vasto, l’ospedale più comodo per la sua situazione, ma in Molise o addirittura più lontano?».

Più in generale, per quanto riguarda l’Abruzzo «la situazione è gravissima. Dopo la denuncia di Maria, le segnalazioni da tutta la regione sono aumentate. Raccontano storie di donne che hanno subito trattamenti stigmatizzanti nel tentativo di abortire. Per fortuna, pian piano si stanno sentendo sempre più forti e cominciano a parlare. E noi di Zona Fucsia siamo qui per aiutarle», ha concluso La Penna. Donne in soccorso delle donne, impegnate in uno sforzo collettivo per un diritto che appartiene a ognuna di loro.

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