Toscani, il grande provocatore: il ricordo del direttore Telese

14 Gennaio 2025

Oliviero Toscani era così, un genio, ma anche un provocatore seriale di talento, secondo una abitudine che lui rivendicava come un merito: “La provocazione è una forma d’arte. Se l'arte non provoca discussioni, interesse, curiosità e punti di vista opposti non serve a niente”.

Gli avevo detto in anteprima, curioso del suo parere: “Oliviero, andrò in Abruzzo a dirigere il Centro”. Mi aveva risposto, alla sua maniera, con una risata sonora: “Ottimo! L’Abruzzo ti piacerà moltissimo: per certi versi ricorda la Francia delle campagne. Per certi altri la Danimarca”. Faticavo ad intuire il primo legame, ero abbastanza sorpreso del secondo, ma (non avendo una conoscenza adeguata della Danimarca) decisi di non indagare perché Oliviero Toscani era così, un genio, ma anche un provocatore seriale di talento, secondo una abitudine che lui rivendicava come un merito: “La provocazione è una forma d’arte. Se l'arte non provoca discussioni, interesse, curiosità e punti di vista opposti non serve a niente”.

Così ci disse in una delle sue ultime interviste a Inonda. La provocazione dunque, non era una sfida dialettica, per lui, ma il modo maieutico in cui uno degli italiani più noti al mondo declinava la sua idea di creazione. Mi era capitato di girare con Oliviero per le vie di Parigi e di Berlino e di trovare gente che lo pregava per avere un selfie. Solo che non erano “italiani all’estero”, ma francesi e tedeschi, a casa loro, che lo consideravano un ambasciatore del nostro più eclettico carattere nazionale. Per questo motivo troverete nelle nostre pagine di oggi il meraviglioso racconto della disputa su “L’Aquila città meretrice” (la parola usata da Toscani era più cruda) fatto dal nostro Giustino Parisse. Oliviero era andato a dire ai veneti che erano “un popolo di ubriaconi”, e si era ritrovato querelato in tribunale, tirò fuori questa boutade sul capoluogo di regione d’Abruzzo ma poi (non senza un ruvido scambio di fendenti) si fece degli amici inaspettati.

A questo punto – però – devo confessare a voi lettori che eravamo amici: come altri trentenni che finirono catturati nel suo raggio di gravitazione, alla fine degli anni Novanta, ero diventato ospite quasi fisso del programma che Toscani conduceva su Radio Radicale, insieme ad un (altro) giovane – Nicholas Ballario– che all’epoca era il suo assistente, e che oggi (grazie a questo splendido apprendistato) è diventato un apprezzato critico d’arte. Lo schema del programma, molto semplice era questo. Oliviero chiedeva al malcapitato ospite, sul tema del giorno: “Cosa ne pensi?”. Quando toccava a me, e gli dicevo la mia opinione (all’epoca io ero solo un giovane inviato) lui mi massacrava. Era il suo metodo: farsi le zanne, facendo le zanne.

Oggi, tra i nomi di quegli ospiti fissi ci sono manager, artisti, intellettuali di successo. La dialettica gladiatoria era il suo modo di essere maestro con i più giovani, e opinionista mai banale con tutti gli altri. Poi, come se nulla fosse lui ti chiamava (magari un’ora prima ti aveva insultato) e ti diceva: “Vieni a visitare la mostra di Magritte a Zurigo?”. Oppure: “Andiamo a vedere insieme La Vocazione di Caravaggio a San Luigi dei francesi?”. Lui – che guardava tutto con gli occhi del fotografo – ne desiderava sempre un altro paio, per poter misurare il mondo con un altro metro. Lo ricordo assessore (“Alla bellezza”!) in Sicilia, a Salemi, con Vittorio Sgarbi, sindaco, quando lanciarono insieme la proposta (apparentemente folle, oggi copiata da molti) delle case del centro storico in vendita ad un euro al metro quadro. Alla fine di quell’esperienza i due litigarono furibondamente, si mandarono a quel paese, e poi tornarono di nuovo amici. Oliviero era il stato grande trasgressore del culo in primo piano per il jeans Jesus (“Chi mi ama mi segua!”) che scandalizzò la Chiesa e mobilitò i pretori nell’Italia degli anni Sessanta. Ma incantò Pier Paolo Pasolini che dedicò uno degli “Scritti corsari” a quella provocazione sostenendo che con quel manifesto era finita l’Italia cattolica e contadina. Toscani era stato alla factory con Andy Warhol da ragazzo, negli anni Settanta, fotografo di moda per “Elle” a Parigi negli Ottanta (“I grandi maestri dell’obiettivo guardavano quel mondo con orrore, io capiii che lì c’erano spazio e soldi per sperimentare”) e mi raccontava: “Un giorno ero in Italia, in un supermercato, mi chiamano da Parigi chiedendomi: “Hai una modella che non sia la solita modella?”. Io mi ero incuriosito ad una ragazza che si muoveva elettrica e sorridente, spostando colli nel magazzino e…”. Oliviero rideva, solo al ricordo: “Ero già abbastanza megalomane per rispondere al direttore di Elle: “Ho la ragazza giusta per voi!” attaccai il telefono, mi avvicinai alla commessa e le dissi: ‘’Come ti chiami?’. E lei: ‘Monica’. Io: “Monica come?”. E lei “Monica Bellucci””. Oliviero aggiungeva: “Le dissi: vuoi venire a Parigi con me venerdì? Non è una storia di sesso, Farai la modella!”. E così fu”.

Potrei raccontare aneddoti per ore, anche più noti. A Parigi Oliviero costruì la sua fortuna, quando era già diventato il grande creativo di Luciano Benetton: ribaltò il congegno della pubblicità. Non era lui che faceva reclame ai “maglioncini”, ma quelli che pagavano la promozione della sua arte, senza più nessun legame con il prodotto. Era una rivoluzione copernicana, molto la copieranno, ma lui fu il primo: esilarante l’aneddoto del grande obelisco di place della Concorde, rivestito con un preservativo di plastica rosa alto trenta metri, calato con una gru della Gondrand: “Abbiamo il permesso?”, chiedevano preoccupati i collaboratori, italiani e non. “Certo!”, rispondeva Toscani, arrivavano i gendarmi e si mettevano a guardare e fotografare, tutti convinti che nessuno potesse essere così pazzo. Si scoprì la verità solo quando dalla centrale di controllo del municipio si accorsero che la telecamera di monitoraggio del traffico riprendeva le strade in rosa. Fu portato in tribunale, identificato, processato: “Ma i giudici mi assolsero con questa motivazione: “L’opera meritoria di sensibilizzazione contro il virus cancella il reato”. Ah ah ah, la grandezza della Francia!”. E io: “E se fossi stato in Italia?”. Toscani: “mi avrebbero condannato e poi saremmo finiti davanti al Tar”.

Si dovrebbero spendere pagine e pagine sulle sue trovate: tre cuori umani di carne uguali fotografati per abbattere i pregiudizi razziali (“Black, Yellow ad White”), suore che si baciano safficamente, bimbi bianchi allattati da seni di una donna di colore, malati terminali sul letto, bambini come angeli e diavoli, primi piani di condannati a morte, ragazze anoressiche: l’iperrealismo di Toscani (a volte crudissimo) scardinava il luogo comune. Scandalizzava. Creava continue polemiche. Lui si divertiva come un matto. Fino alla malattia rara che lo aveva schiantato: “Come tutti i cretini della mia generazione sono sempre stato convinto di essere immortale: “Forever you neg, come diceva Bob Dylan”. Poi un giorno mi sono svegliato, a ottant’anni, ed ero un morto che camminava”. Di quel male raro lo faceva soffrire il fatto di non poter più lavorare: “Sono un cervello vivo, imprigionato in un cadavere”, Tre mogli in tre continenti diversi, sei figli, una ricchezza incredibile messa insieme con il talento, i litigi del 1962 quando lui proponeva un servizio sui Beatles ad Oggi, e il caporedattore del settimanale che gli rispondeva: “Non so, mi sembrano un fenomeno passeggero”. La sua ultima splendida lezione? Quella sul valore “democratico” della fotografia: “Non credete ai grandi vip di obiettivi, pellicole, filtri… siete meglio voi. La storia moderna inizia con la fotografia. Nessuno di noi ha le foto dei suoi trisavoli, nei primi del Novecento il ritratto pittorico era una esclusiva dei ricchi, la foto posata era un lusso costoso, adesso che con i telefonini ognuno di noi ha un obiettivo in tasca, finisce la leggenda inizia la realtà. Siamo diventati per la prima volta cittadini grazie all’immagine”. United colors of Oliviero.