Appalti delle chiese, cinque arresti all'Aquila. Il ruolo dei vescovi e le pressioni a zio Letta: vogliamo decidere noi

18 Giugno 2014

Le mosse di D’Ercole e le pressioni per ottenere l’affidamento diretto dei lavori. Lettera consegnata all’imprenditore Vinci: "Se fanno ’sta cosa facciamo Bingo"

L’AQUILA. Non ci sono solo imprenditori col cappello in mano a bussare alla stanza dei bottoni. Ci sono pure i vescovi d’Abruzzo e Molise che inviano per iscritto ai Letta, zio e nipote, «fervidi voti augurali per l’alta missione al servizio dell’Italia» e poi mettono in busta chiusa, affidandola, per la consegna, a un imprenditore accusato di pagare tangenti (che a sua volta avrebbe dovuto girarla all’arrestato Marchetti) la loro proposta di legge per la ricostruzione delle chiese. Quasi tutte ancora scoperchiate, strette come sono tra la mancanza di fondi, le procedure farraginose, l’ingorgo di progetti da finanziare per primi, gli esposti delle ditte escluse e gli appetiti di imprenditori desiderosi perlopiù di saltare a pie’ pari le gare a evidenza pubblica per avere l’affidamento diretto, con le famose cinque buste. In mezzo, lo stallo creato dal fatto che alcuni parroci si sono mossi per conto loro, affidando incarichi per le case canoniche a imprenditori di fiducia che dalle canoniche (che seguono le norme per la ricostruzione privata) molto volentieri passerebbero al piatto forte: le chiese. Procedura che il Comune non ammette: niente finanziamento per le chiese collegate alle canoniche con le norme della ricostruzione privata. Un bel caos, insomma.

Gli 11 presuli (più uno, appunto) mandano avanti l’ausiliare Giovanni D’Ercole, ormai al vespro della sua controversa esperienza in Abruzzo, eppure attivissimo nell’intessere rapporti coi gangli del potere al fine di ottenere la modifica di una norma che impedisce, di fatto, l’affidamento diretto, prevedendo le regole del codice degli appalti. E per togliere alla Direzione beni culturali il ruolo di soggetto attuatore. Una controversia che leva il sonno al nuovo metropolita Giuseppe Petrocchi, che nominato l’8 giugno e insediatosi il 7 luglio sulla cattedra di San Massimo (a proposito di chiese ancora scoperchiate) viene catapultato, suo malgrado, al centro di uno scontro di poteri senza esclusione di colpi. Dal quale vorrebbe smarcarsi volentieri. «Noi ci troviamo in una situazione difficilissima», confida il suo ausiliare mentre parla con l’indagato (e intercettato) Marchetti. «Credo che l’arcivescovo anche ieri sera era preoccupatissimo di come trovare una soluzione...io onestamente non so che soluzione proporre». La soluzione la trova Marchetti: «Si potrebbe ottenere una cosa...che venga modificata la delibera Cipe». E D’Ercole, di rimando: «Ma se viene modificata...se il piano superiore accettano, il problema non sussiste più...». Marchetti: «Certo, è l’unica strada». Ma i dubbi restano. Ancora D’Ercole: «Fa fatica pure l’arcivescovo ad accettare questa linea perché lui ritiene che noi non siamo all’altezza di diventare soggetti attuatori». Avvenne così anche in Umbria e Marche, dicono, lo facciamo per decidere noi quale chiesa rifare per prima ma non vogliamo gestire i soldi. Intanto le chiese non si rifanno. E in più, progettisti e faccendieri battono cassa ogni giorno. E la Curia, che ha un bilancio color rosso pompeiano, non può permettersi di pagare parcelle a vuoto. Alla fine si decide d’inviare lo stesso la lettera a firma di D’Ercole, ma a nome di tutti i vescovi della Conferenza episcopale Abruzzo-Molise. Una lettera che, declamata dall’imprenditore Vinci («Se fanno ’sta cosa là, con Marchetti facciamo Bingo!»), finisce agli atti dell’inchiesta. Per la Procura la Curia, stavolta, non c’entra. È Marchetti che punta a far cambiare la legge e, come contropartita, ottenere l’incarico di supermanager per la ricostruzione di tutti i beni ecclesiastici. Non ha fatto in tempo.

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