Serpari, così il rito sopravvive alla modernità
Oltre trentamila turisti a Cocullo. Ma per fede c’è chi torna anche dall’estero
COCULLO. Molte cose il tempo ha cambiato. Una volta, finita la processione, i serpenti venivano portati in piazza, o ai margini del paese, e uccisi, ricordano i giovani rievocando i racconti dei vecchi. Ancora negli anni Trenta le compagnie dei pellegrini arrivavano a piedi da ogni dove per rendere omaggio al santo e si accampavano attorno a Cocullo pregando e mangiando. Oggi i fedeli viaggiano a bordo dei pullman, i turisti assaltano a migliaia il piccolo centro con Suv e fuoristrada, e i serpenti vengono riportati alle loro tane. Di tante, una cosa è rimasta immutata nel tempo: «Non può esistere San Domenico senza le serpi, e le serpi senza San Domenico» dice Clelia D’Orazio, che imparò a maneggiare i serpenti dalla madre e ora insegna al figlio. «Per i turisti è uno spettacolo. Per noi è la fede, è la tradizione».
Mescolata a decine di serpari, Clelia segue la processione con le mani insanguinate dove sono affondati i denti: «Questo biacco è vivace, morde, ma non fa male» sorride accarezzando la serpe arrotolata attorno ai suoi polsi. Per chi vive a Cocullo, oggi 270 persone, per chi ogni anno torna a onorare il suo patrono, il rito del primo giovedì di maggio è la vita che ruota sul suo eterno asse e che si risveglia in primavera, quando la terra fiorisce e i serpenti si avvicinano al momento del ritorno alla luce dopo il lungo sonno.
È in questo momento, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, che i serpari cominciano la caccia in nome di San Domenico, il taumaturgo, il protettore dai morsi, colui che guarisce dal mal di denti. Alle prime ore di giovedì primo maggio, nel giorno in cui il rito dei serpari coincide con la Festa del lavoro, Cocullo è accerchiata. Attorno al paese il traffico è in tilt, migliaia di auto cercano di raggiungere il paese. Alle 11.30 il casello sull’autostrada A 25 viene chiuso in entrambe le direzioni, la viabilità di tutta la zona è al collasso. Chi è determinato a raggiungere il paese, esce a Pescina o a Pratola Peligna e da lì si accoda lungo le provinciali alla carovana interminabile dei turisti. Più di trentamila persone, «almeno il doppio rispetto agli altri anni», dice il sindaco Nicola Risio.
«Di queste, il grosso se ne va senza lasciare nulla in paese, perché noi non abbiamo strutture ricettive: a noi rimane solo il lavoro dell’organizzazione prima e, dopo, la pulizia delle strade. Ma è un’emozione grandissima che si ripete, è la conferma del legame col santo, una cosa che per capirla bisogna starci dentro».
Per l’Abruzzo del turismo è una straordinaria occasione di marketing: a mezzogiorno, mentre dentro il santuario il vescovo di Sulmona-Valva Angelo Spina celebra la messa, nella piazza traboccante di folla, una selva di telecamere e fotografi ondeggia pronta al momento più suggestivo del rito: la vestizione del santo con le bestie che aspettano quiete arrotolate sui serpari.
In chiesa, davanti alla statua di San Domenico aspettano i primi quattro portatori: Ubaldo Domenico Gentile, il cugino Domenico Gentile e Antonio Corvetti, di Cocullo, e Domenico Capotosti, di Roma: «Venni per la prima volta coi miei genitori nel 1962, quando qui le strade erano tutte bianche» ricorda. «Venimmo perché portavo il nome del santo e da allora siamo sempre tornati».
Alle loro spalle, in una grotta seminascosta sul lato sinistro dell’unica navata, due anziane donne raccolgono da terra, in sacchetti, sabbia benedetta: «La buttiamo attorno alle case, tiene lontani i serpenti». Dunque il male.
La messa finisce. Fuori la banda di San Giorgio a Liri si prepara. Dentro Gabriella Mostacci e Daniela Del Monte, vestite con i costumi tradizionali dai corpetti di velluto bordati d’oro, sollevano sulla testa le grandi ceste ricoperte di merletto dove sono stati deposti i ciambellati, i pani sacri. Dietro di loro il vescovo, che per la prima volta guida il corteo, alza la teca cinquecentesca che contiene il dente di San Domenico, seguono i gonfaloni di Villalago, Petroro, Villamagna, Anversa e Scanno, i paesi fratelli nella devozione.
La processione si mette in movimento e, superato il portone, esplodono le urla, gli applausi, si alzano le braccia che finalmente abbandonano sul santo le serpi segnate: ciascuna un colore, un simbolo, perché ciascuna più tardi sarà recuperata dal serparo e poi riconsegnata alla terra da cui viene. I cervoni, i saettoni, le bisce dal collare e i biacchi si aggrovigliano attorno al collo di San Domenico, gli piovono sul mantello nero, si attorcigliano attorno al piccolo angelo seduto ai suoi piedi.
La folla enorme si muove pressando il corteo per vedere meglio, dietro alla statua sfilano i serpari con le decine di serpi che non sono state affidate al santo: uomini e donne, in gran parte giovani, come Carlo Ranalli e la moglie Linda Di Silvestro, che ha appreso l’arte dal marito, o Massimo Mascioli, 22 anni, che porta un tesserino appeso a una tasca: «Da quest’anno i serpari sono contrassegnati, per evitare, come succedeva gli altri anni, che venga intervistata gente che non sa neppure come rispondere».
Paolo Cifani, 20 anni, che cammina al fianco del padre Demetrio, studia a Roma: «Ma sono tornato per la festa: per la devozione al santo e perché sin da piccolo amo i serpenti».
È scritto nei geni, è la memoria ancestrale dei padri che nel ripetersi dei gesti conferma l’identità di tutti e di ciascuno. È questo che muove gli abitanti quando, a febbraio, il comitato guidato dal parroco don Carmine Caione, con il supporto della Pro loco, comincia la questua casa per casa, ogni domenica, mentre vengono spedite richieste di contributi agli emigrati in ogni parte del mondo: «Spediamo almeno un centinaio di lettere, e dall’estero le rimesse arrivano sempre» dice Mario Volpe.
«Ma quest’anno sono anche tornati in tanti, dagli Stati Uniti e dal Canada». «Per me rappresenta la tradizione» dice Gianfranco Risio, carabiniere a Roma, «per venire qui ogni anno chiedo le ferie». E assieme all’orgoglio per le radici, c’è il rispetto per il territorio: «I serpenti non sono in vendita» replica Manuele Gentile, 15 anni, a un turista che offre denaro. In cima al paese, attraversate a fatica le strade stracolme, il corteo si ferma. Il santo ora guarda verso la vallata, in cielo esplodono senza colori, sotto il sole abbagliante, i fuochi d’artificio. I serpenti scivolano, mani sapienti li tirano su.
Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell’Aquila, avanza portando un serpente: «Nessuna paura, ho familiarità con tante serpi vere» scherza. «Per me, che vengo da tanti anni, l’emozione è sempre nuova. Peccato che migliaia di persone non siano poi trattenute da proposte collaterali». Dietro il rito, c’è un potenziale turistico inespresso: «Lo dimostra il fatto che la festa dei serpari è l’unica in Abruzzo citata dalle guide Lonely Planet» sottolinea l’assessore al Turismo Teresa Nannarone.
Sono le 14 quando il santo, liberato dai serpenti, rientra in chiesa. «È una cosa commovente vedere una simile moltitudine di persone, venute alcune per curiosità, altre con devozione» commenta monsignor Spina al termine della processione mentre davanti al santo ha luogo il momento più suggestivo del rito. Sono i pellegrini della compagnia di Atina, in provincia di Frosinone, che salutano il protettore con il canto di licenza, una melodia struggente accompagnata da cornamuse: cantano, e salutano con le mani, come bambini dietro i finestrini di un treno, indietreggiando lenti.
Dicono arrivederci alcuni, altri addio, perché nessuno sa chi tornerà l’anno prossimo ed è per questo che qualcuno piange. Un passo dopo l’altro a ritroso, senza mai voltare le spalle a San Domenico, mentre la gente fa la fila attorno alla campanella, da suonare con la bocca per essere risparmiati dal mal di denti. In paese, intanto, i cocullesi aprono le case ai turisti, offrendo un ristoro, a chi vuole anche il pranzo.
Gli stand della fiera vengono presi d’assalto, le porchette finiscono, il traffico impazzisce. Arrancano lungo le stradine Gianni Pizza e Claudio Corvino, antropologi, che videro Cocullo per la prima volta 26 anni fa, da allievi del professor Alfonso Maria Di Nola, il grande antropologo morto alla fine degli anni Novanta che fece conoscere a tutto il mondo il rito di Cocullo. Da allora tornano sempre, negli ultimi anni per animare il centro studi intitolato a Di Nola che analizza le mutazioni del rito.
«Di Nola ci ha insegnato a non considerare le trasformazioni come degrado» afferma Pizza, docente all’università di Perugia. «Adesso tutto rientra nella forma del turismo religioso di interesse mediatico, ma non è fenomeno negativo, perché non scalfisce il nucleo emotivo, che permane. Le feste sono elemento di attrazione perché mentre a un rituale specifico vanno persone credenti, alla festa può andare chiunque e a Cocullo non c’è solo rito, ma anche festa. La competenza del serparo crea fascino nel forestiero che non ha familiarità con i serpenti, ma repulsione.
Cocullo» conclude, «è il luogo in cui la repulsione è stata vinta: prima dal santo e poi dai serpari. Questo può essere considerato un momento di educazione ambientale rispetto al rapporto tra uomini e animali».