Concetta tra i profughi in Libano: «Ogni vita merita di essere salvata»
La 39enne lancianese cooperante nel Paese dei cedri Con la Coopi una raccolta fondi per i centri d’accoglienza
Esattamente un anno fa, l’8 ottobre 2023, iniziava l’escalation tra Israele e Libano. Poi, l’attacco che ha colpito Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, e il quartiere di Cola nel cuore di Beirut. Infine l’attacco di terra: dal Paese dei cedri, che negli anni aveva accolto centinaia di migliaia di profughi palestinesi e siriani, adesso si fugge. In migliaia scappano verso la Siria, abbandonando ogni cosa.
Racconta la tragedia con voce appassionata e urgente Concetta Bianco, 39enne di Lanciano, in Libano dal 2023. Dal febbraio 2024, come Program manager della Ong Coopi, cerca di portare aiuti immediati in una terra che sembra aver perso tutto. «Attualmente», spiega Concetta, «la situazione è molto difficile, un’emergenza senza precedenti. Non ricordo nulla di così terribile, un dramma quotidiano. I numeri sono enormi: mille vittime, tra cui centinaia di donne e bambini, diecimila feriti, seimila solo nelle ultime settimane. Poi il dramma degli sfollati, si parla di un milione finora. Vengono dalla zona sud del Libano, a confine con Israele, dalla Valle della Beqaa e dalla zona suburbana di Beirut. Libanesi, siriani, palestinesi. Il Libano ha accolto per anni i profughi, c’è il più alto tasso di siriani per chilometro quadrato. Oggi tornano verso la Siria e tra loro ci sono libanesi e anche siriani, costretti a ritornare nei luoghi da cui erano fuggiti».
E dietro ai freddi numeri, c’è una tragedia umana...
«Le persone sono fuggite dalle case in tutta fretta. Non sempre le notifiche di evacuazione arrivano, o arrivano tardi, solo pochi minuti prima degli attacchi. Uno choc enorme, un forte trauma soprattutto per i bambini. Si vive nella paura quotidiana, di giorno e di notte, tormentati da bombardamenti continui. Chi fugge va via senza portarsi nulla, solo i vestiti che ha addosso».
Dove vengono accolti?
«I più fortunati riescono ad affittare case nella capitale o al Nord, ma in tanti si riversano nei rifugi temporanei. Attualmente sono 900: di questi, 677 sono pieni alla massima capacità. I centri di accoglienza sono adibiti nelle scuole, negli edifici pubblici, nelle palestre. Tanti altri dormono per strada, nelle macchine».
Che tipo di aiuto riuscite a dare ai profughi?
«Noi come Coopi diamo soprattutto un supporto materiale, la nostra specializzazione. Lavoriamo in un centro di formazione a Saida, il governatorato di Sidone, e in due scuole vicino Tripoli, seconda città del Libano, a nord. In questi tre centri accogliamo duemila persone, garantendo loro due pasti caldi al giorno. Per ora abbiamo una proiezione di tre mesi, ma possiamo rispondere solo alle prime necessità, pannolini, cibo, latte, saponi. Vogliamo ampliare l’intervento, collaborando con altri centri e cercando di fornire anche altri beni, ma per fare questo abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo lanciato anche una raccolta fondi sul nostro sito (https://dona.coopi.org/emergenza-libano/, ndr). I fondi sono assolutamente necessari».
In questa nostra parte di mondo, diciamo fortunato, è difficile immaginare le situazioni che descrive. Queste persone come le affrontano?
«Mi colpisce la tristezza continua nei loro occhi per aver perso ogni cosa. L’impotenza di non poter fare nulla. La loro unica colpa è di essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato e non c’è nulla che possa fermare la sofferenza. Dall’altra parte, mostrano grande spirito di cooperazione, nella comunità e verso chi porta loro gli aiuti: non sempre questo è scontato».
Le istituzioni vi sostengono?
«Le istituzioni libanesi collaborano, le municipalità mettono a disposizione gli edifici per l’accoglienza. Alle Nazioni Unite più che altro chiediamo di lavorare per il cessate il fuoco.
Come si è avvicinata alla cooperazione internazionale?
«Per caso, anche se avevo già iniziato un percorso interiore alla ricerca di qualcosa di più “umano”. Lavoro da cooperante da più di dieci anni. Ho studiato Antropologia e Lingue orientali, poi ho iniziato un viaggio professionale e fisico, prima in Tanzania, poi in Iraq, Somalia e Kenya. Un percorso dal mondo umanistico al mondo umanitario, insomma».
È più difficile per una donna lavorare in quel contesto sociale e religioso?
«Certo, bisogna essere consapevoli nell’essere donna, rispettare certi costumi, al di là delle religioni. Paese che vai, usanze che trovi. Per la donna a volte è più spiccata la difficoltà a far accettare il proprio ruolo. Ci vogliono conoscenza e rispetto reciproco. Amo ricordare, come cooperante, che sono comunque ospite, straniera, e devo ricambiare la loro ospitalità».
Quali sono i problemi pratici da superare?
«Pianifichiamo le attività e i nuovi programmi di sviluppo. Sembrerà strano, ma una delle cose più complicate di cui ci occupiamo è la gestione dei rifiuti. La spazzatura è uno dei grandi problemi, nei campi profughi bastano poche settimane per avere un emergenza. Milioni di bottigliette di plastica, pannolini, imballaggi. In Libano mancano le infrastrutture, non ci sono impianti di trattamento, dobbiamo introdurre una gestione razionale dei rifiuti. Poi, pensiamo ai bambini che non sono tornati a scuola: bisogna ripianificare tutte le attività normali».
Ha paura quando è lì?
«Ci sono momenti in cui sono più impaurita. Adesso sono al sicuro, però le sento le esplosioni qui vicino, si sta sempre con l’orecchio teso. Non si sa dove vadano a bombardare, stiamo sempre con l’occhio sui messaggini per capire se siamo coinvolti, un continuo stato di allerta. Ma amo il mio mestiere e mi sento motivata, so che c’è bisogno di me, posso farlo».
E la vita privata, riesce a conciliare le due cose?
«Per fortuna, il mio compagno è nel mio stesso settore, coinvolto anche lui nell’emergenza. Ci supportiamo se ci sono angosce, ci compensiamo nella stanchezza. Più difficile è rassicurare la famiglia a casa».
C’è un ricordo speciale che si porta nel cuore?
«Un ricordo che mi porto dietro dalla Somalia, dove ho potuto conoscere persone speciali, forti anche nella loro povertà, nella siccità che colpiva la zona. La felicità di una donna che ha visto finalmente l’acqua portata da un sistema di irrigazione che avevamo installato: l’arrivo dell’acqua ha rappresentato per loro la rinascita».
Un sogno per il futuro?
«Per ora lavoriamo nel presente. Quello che auspico è che si possa superare questa sofferenza. Per questo è essenziale avere un aiuto, anche economico, da chiunque possa darlo. Dobbiamo proteggere i civili, lavorare per il “cessate il fuoco”. Ogni vita merita salvezza».
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Racconta la tragedia con voce appassionata e urgente Concetta Bianco, 39enne di Lanciano, in Libano dal 2023. Dal febbraio 2024, come Program manager della Ong Coopi, cerca di portare aiuti immediati in una terra che sembra aver perso tutto. «Attualmente», spiega Concetta, «la situazione è molto difficile, un’emergenza senza precedenti. Non ricordo nulla di così terribile, un dramma quotidiano. I numeri sono enormi: mille vittime, tra cui centinaia di donne e bambini, diecimila feriti, seimila solo nelle ultime settimane. Poi il dramma degli sfollati, si parla di un milione finora. Vengono dalla zona sud del Libano, a confine con Israele, dalla Valle della Beqaa e dalla zona suburbana di Beirut. Libanesi, siriani, palestinesi. Il Libano ha accolto per anni i profughi, c’è il più alto tasso di siriani per chilometro quadrato. Oggi tornano verso la Siria e tra loro ci sono libanesi e anche siriani, costretti a ritornare nei luoghi da cui erano fuggiti».
E dietro ai freddi numeri, c’è una tragedia umana...
«Le persone sono fuggite dalle case in tutta fretta. Non sempre le notifiche di evacuazione arrivano, o arrivano tardi, solo pochi minuti prima degli attacchi. Uno choc enorme, un forte trauma soprattutto per i bambini. Si vive nella paura quotidiana, di giorno e di notte, tormentati da bombardamenti continui. Chi fugge va via senza portarsi nulla, solo i vestiti che ha addosso».
Dove vengono accolti?
«I più fortunati riescono ad affittare case nella capitale o al Nord, ma in tanti si riversano nei rifugi temporanei. Attualmente sono 900: di questi, 677 sono pieni alla massima capacità. I centri di accoglienza sono adibiti nelle scuole, negli edifici pubblici, nelle palestre. Tanti altri dormono per strada, nelle macchine».
Che tipo di aiuto riuscite a dare ai profughi?
«Noi come Coopi diamo soprattutto un supporto materiale, la nostra specializzazione. Lavoriamo in un centro di formazione a Saida, il governatorato di Sidone, e in due scuole vicino Tripoli, seconda città del Libano, a nord. In questi tre centri accogliamo duemila persone, garantendo loro due pasti caldi al giorno. Per ora abbiamo una proiezione di tre mesi, ma possiamo rispondere solo alle prime necessità, pannolini, cibo, latte, saponi. Vogliamo ampliare l’intervento, collaborando con altri centri e cercando di fornire anche altri beni, ma per fare questo abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo lanciato anche una raccolta fondi sul nostro sito (https://dona.coopi.org/emergenza-libano/, ndr). I fondi sono assolutamente necessari».
In questa nostra parte di mondo, diciamo fortunato, è difficile immaginare le situazioni che descrive. Queste persone come le affrontano?
«Mi colpisce la tristezza continua nei loro occhi per aver perso ogni cosa. L’impotenza di non poter fare nulla. La loro unica colpa è di essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato e non c’è nulla che possa fermare la sofferenza. Dall’altra parte, mostrano grande spirito di cooperazione, nella comunità e verso chi porta loro gli aiuti: non sempre questo è scontato».
Le istituzioni vi sostengono?
«Le istituzioni libanesi collaborano, le municipalità mettono a disposizione gli edifici per l’accoglienza. Alle Nazioni Unite più che altro chiediamo di lavorare per il cessate il fuoco.
Come si è avvicinata alla cooperazione internazionale?
«Per caso, anche se avevo già iniziato un percorso interiore alla ricerca di qualcosa di più “umano”. Lavoro da cooperante da più di dieci anni. Ho studiato Antropologia e Lingue orientali, poi ho iniziato un viaggio professionale e fisico, prima in Tanzania, poi in Iraq, Somalia e Kenya. Un percorso dal mondo umanistico al mondo umanitario, insomma».
È più difficile per una donna lavorare in quel contesto sociale e religioso?
«Certo, bisogna essere consapevoli nell’essere donna, rispettare certi costumi, al di là delle religioni. Paese che vai, usanze che trovi. Per la donna a volte è più spiccata la difficoltà a far accettare il proprio ruolo. Ci vogliono conoscenza e rispetto reciproco. Amo ricordare, come cooperante, che sono comunque ospite, straniera, e devo ricambiare la loro ospitalità».
Quali sono i problemi pratici da superare?
«Pianifichiamo le attività e i nuovi programmi di sviluppo. Sembrerà strano, ma una delle cose più complicate di cui ci occupiamo è la gestione dei rifiuti. La spazzatura è uno dei grandi problemi, nei campi profughi bastano poche settimane per avere un emergenza. Milioni di bottigliette di plastica, pannolini, imballaggi. In Libano mancano le infrastrutture, non ci sono impianti di trattamento, dobbiamo introdurre una gestione razionale dei rifiuti. Poi, pensiamo ai bambini che non sono tornati a scuola: bisogna ripianificare tutte le attività normali».
Ha paura quando è lì?
«Ci sono momenti in cui sono più impaurita. Adesso sono al sicuro, però le sento le esplosioni qui vicino, si sta sempre con l’orecchio teso. Non si sa dove vadano a bombardare, stiamo sempre con l’occhio sui messaggini per capire se siamo coinvolti, un continuo stato di allerta. Ma amo il mio mestiere e mi sento motivata, so che c’è bisogno di me, posso farlo».
E la vita privata, riesce a conciliare le due cose?
«Per fortuna, il mio compagno è nel mio stesso settore, coinvolto anche lui nell’emergenza. Ci supportiamo se ci sono angosce, ci compensiamo nella stanchezza. Più difficile è rassicurare la famiglia a casa».
C’è un ricordo speciale che si porta nel cuore?
«Un ricordo che mi porto dietro dalla Somalia, dove ho potuto conoscere persone speciali, forti anche nella loro povertà, nella siccità che colpiva la zona. La felicità di una donna che ha visto finalmente l’acqua portata da un sistema di irrigazione che avevamo installato: l’arrivo dell’acqua ha rappresentato per loro la rinascita».
Un sogno per il futuro?
«Per ora lavoriamo nel presente. Quello che auspico è che si possa superare questa sofferenza. Per questo è essenziale avere un aiuto, anche economico, da chiunque possa darlo. Dobbiamo proteggere i civili, lavorare per il “cessate il fuoco”. Ogni vita merita salvezza».
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