IL RACCONTO
Da Francavilla a Ortona, 5mila passi in libertà
Reportage dalla Postilli-Riccio. Dove anche avvocati e funzionari di Stato non spendono un euro
ORTONA. Ci trovi l’avvocato con il camper a bordospiaggia, e una cucina improvvisata nell’abitacolo di una vecchia Panda, e la funzionaria della prefettura, con l’ombrellone variopinto sottobraccio. Ci trovi anche lo psicologo della Asl, con figli e nuore al seguito, e un ex amministratore dell’Università. Metti un venerdì mattina di metà luglio sulla spiaggia libera della Stazione di Tollo. Dune, sabbia e mare pulito, almeno fino alle 13, e qualche scheggia di vetro sotto il cartello del Comune di Ortona che avvisa di stare molto attenti perché non ci sono bagnini. Ma l’acqua fino agli scogli è bassa, la temperatura sfiora i quaranta gradi e, se hai guanti e maschera, prendi anche le ostriche. Si chiama Postilli-Riccio la strada comunale che dal versante Sud di Francavilla al Mare, attraversando il ponte sul fiume Foro, porta alla Stazione di Tollo.
Ma la spiaggia continua anche oltre, fino a Lido Riccio di Ortona dove trovi l’Hotel Katia, dopo cinquemila passi in libertà. Anche il parcheggio, ai bordi della strada comunale, è libero e assolato. Peccato per quella carcassa di televisore e per i bidoni dell’immondizia chiusi con il lucchetto. Chissà perché.
Tra la Postilli-Riccio e il mare c’è una lunga serie di fazzoletti di sabbia: tutti recintati con materiale di risulta, vecchie reti da letto, sacchi di juta con la scritta Do Brasil e tapparelle. C’è chi, in quei piccoli lotti, ha piantato l’orto. Chi invece ha abbandonato scafi logorati dal tempo e dalla salsedine. In ogni spazio c’è una baracca. La spiaggia di tutti diventa privata. Peccato anche per questo. Così, di ingressi al mare, se ne contano tre, quattro al massimo, in cinque chilometri. E trovarli è come fare centro con le freccette a venti metri dal bersaglio. Eccone finalmente uno, senza cartello che lo segnali. Lo scopri solo perché vedi infilarsi in quel budello di strada un gruppo di persone in fila indiana, attente a non urtare con il materassino la vecchia e traballante staccionata in legno, da cui spuntano chiodi arrugginiti.
È lunga una trentina di metri quella stradina che sbuca in un canneto. Lo costeggia e infine si apre sulle dune e su uno scenario anni Sessanta.
Solo silenzio, mare, il bagliore della spiaggia e ombrelloni multicolori sparsi a una distanza di trenta, quaranta metri l’uno dall’altro. Bello, bellissimo, se non fosse per la baraccopoli che ricorda quel film con Manfredi “Brutti, sporchi e cattivi”, e qualche pezzo di catrame sulla sabbia, catrame sciolto dal solleone. Sono le 11,30 di venerdì e una sensazione di libertà e voglia di tuffarsi ti coglie mentre percorri gli ultimi venti metri. Ma prima bisogna scegliere un punto senza catrame o schegge di vetro, per piantare l’ombrellone, stendere i teli e, per i più attrezzati, aprire mini sdraio e tavolino da pic nic. Sulla battigia corrono liberi cani di piccola taglia mentre dal mare esce un tipo basso di statura, pelato e abbronzatissimo. Come un personaggio dantesco, trascina un sacco pieno zeppo di cozze. «Sessanta chili», esclama, «me le pagano almeno 40 euro».
A chi gli dice: «Ma se la scoprono le fanno la multa», risponde: «Non ho lavoro. Chi me le paga le bollette?». Fino a una certa ora, si diceva, l’acqua è trasparente. Caldissima in superficie, fredda ma gradevole alle caviglie. Poi, dopo le 13, chissà per quale magia, si intorbidisce e l’odore cambia. Peccato. Del resto siamo tra due fiumi, il Foro e l’Arielli, e l’Abruzzo dei depuratori non è da premio Oscar. Ma a chi lo dici che stanno inquinando anche il libero mare davanti alla libera spiaggia?