Parla la dottoressa aggredita in ospedale: «Mi sono sentita violata»
Parla il medico del Pronto soccorso aggredito da un paziente che ora rischia cinque anni di carcere: «Subiamo le pressioni dell’utenza insofferente, ma è il mestiere più bello del mondo»
PESCARA. «Mi sono sentita violata, delusa, offesa, ma ho la fortuna di fare il mestiere più bello del mondo e già il giorno dopo ero contenta che fossi tornata al lavoro». Daniela Buccella lavora da 8 anni al Pronto soccorso. È la dirigente medico che il 18 ottobre è stata aggredita da un paziente che ora rischia 5 anni di carcere con la nuova normativa. Le ha sputato. Come se fosse stata una cosa, un animale sporco. Mentre lei cercava di assisterlo.
Dottoressa, cominciamo da lì: cosa è successo quel pomeriggio al Pronto soccorso?
«È entrato quell’uomo, e ho subito capito che avevo davanti una persona alterata. Pretendeva una prestazione non erogabile. Ricordo che gli era stata già data un’impegnativa affinché la prestazione venisse erogata sul territorio. Gli ho così ripetuto due, tre volte che non poteva avere quel tipo di consulenza nel Pronto soccorso. E mi ha fatto la domanda».
Quale domanda?
«Mi ha chiesto: “Ma lei come lavora?”. E io gli ho risposto: “In scienza e coscienza”. E mi sono alzata, gli ho detto che si doveva accomodare, e lui prima è andato verso l’uscita poi è tornato e mi ha sputato diverse volte addosso».
Ha in questi mesi provato a darsi una spiegazione su quanto successo?
«Sì, certo. Ritengo che sia stato uno dei tanti fatti che si consumano con certa frequenza nei Pronto soccorso. Qui siamo ancora abbastanza tutelati, non si sono verificati per fortuna eventi impattanti. Il problema è che noi operatori ci troviamo di fronte a un’utenza esasperata, a torto o a ragione, che mal tollera, ad esempio, le attese e le richieste di determinate prestazioni che non sono dovute».
Così sembra che lei provi più comprensione che rabbia per quell’uomo.
«Ci ho pensato molto, come è ovvio, e per me è stato un “discontrollo” di un personaggio particolare».
Discontrollo?
«Un “mal controllo” emotivo, una rabbia comunque non giustificabile. Ma al di là di questo a far da sfondo c’è sempre l’insofferenza degli utenti che noi siamo costretti ad assorbire, perché inevitabilmente ci troviamo davanti alle pressioni dell’utente che diventa insofferente su presupposti comunque sbagliati. Il punto nodale è che si arriva all’estremo».
Dopo quanto successo non si è domandata chi me lo fa fare?
«Lavorare nel dipartimento Centro Emergenze è una scelta e io, come tanti, lo faccio nel migliore dei modi. Siamo il front office dell’ospedale, ci mettiamo la faccia. Ma stiamo lì perché ci crediamo, siamo disposti a passare sopra al sacrificio fisico oltre che quello emotivo. E ci può stare che, quando dopo la violenza verbale arriva quella fisica, uno ci pensa».
L’impresa vale la spesa?
«Guardi, non c’è un giorno in cui mi pento di entrare in ospedale col sorriso ed esco stanca. Parlo a nome di tanti, è come se ci fosse un meccanismo che ogni giorno ci consente di rialzarci e riniziare. Ogni volta. Ma sempre col sorriso. E’ necessario per sopravvivere e anche per trasferire con empatia la nostra professionalità. Non riesco a pensarmi in un altro posto».
Una sorta di terapia comportamentale.
«In un certo senso sì, ma viene da sola. Faccio un sospiro, ci auto-proteggiamo. Con sorriso, tenacia determinazione e professionalità. Perché dobbiamo sempre pensare che di fronte abbiamo persone che soffrono».
Dottoressa, che cosa non va nei Pronto soccorso? Perché medici e infermieri vengono sempre più spesso aggrediti?
«C’è un cattivo uso del Pronto soccorso. L’utenza non è educata in chiave sanitaria, il Pronto soccorso è diventato una necessità per aggirare le liste d’attesa, una conseguenza della scarsa reperibilità dei medici di base, anche se il discorso non vale per tutti. La guardia medica è assolutamente inesistente e mi permetto di sottolineare questo concetto come ribadiscono tanti pazienti, e per questo affrontiamo prestazioni che non ci spettano. L’utenza viene a fare numero suo malgrado senza la stretta necessità dell’urgenza«.
Un esempio?
«Atteniamoci alla parola stessa, Pronto soccorso. Una colica renale è un’urgenza in cui c’è dolore incontrollato, ma il dolore al ginocchio non può essere urgenza da pronto soccorso. Due esempi banali ma che servono a caratterizzare il problema».
Voi medici accusate la pressione che vi mette l’utenza esasperata?
«L’ utenza esasperata dall’attesa nasce da un affollamento enorme. Nel Pronto soccorso si forma un enorme calderone dove può esserci il rischio di non captare la reale urgenza. Questo perché si arriva a valutare con celerità tanti codici e si rischia di perdere lucidità. Abbiamo bisogno anche noi dei nostri tempi per lavorare. E prima di decidere su come intervenire abbiamo spesso bisogno di parlare, di conoscere il paziente, di capire bene che cosa ha avuto e la sua storia».
Quindi che cosa suggerisce?
«Non ho la formazione adatta per suggerire la soluzione. Sicuramente ci vuole una medicina di base più presente sul territorio, una guardia medica più efficace nei codici e soprattutto una migliore gestione della domanda e quindi dell’offerta della prestazione. E poi si dovrebbe aumentare il numero dei posti letto nei reparti geriatrici, perché altrimenti non snelliremo mai i processi di flusso».
C’è l’assistenza domiciliare.
«Sì, ma parliamoci chiaro: le famiglie non ce la fanno lo stesso a gestire gli anziani malati, e i posti letto non ci sono perché è aumentata l’utenza anziana. Se siamo ridotti in questo stato è perché la soluzione al momento non esiste. In questo la pandemia ha segnato un punto di passaggio che ha portato a un problema enorme. I colleghi del territorio fanno quello che possono con i mezzi che hanno. Purtroppo ci sono tanti pazienti cronici perché quello che viene offerto non ce la fa a coprire le reali esigenze».
Torniamo a quanto successo quel giorno, da allora è cambiato qualcosa nel Pronto soccorso?
«Dal punto di vista della sicurezza i vigilantes ci sono sempre stati, siamo tutelati. Se sentono alzare i toni intervengono. Ritengo che quanto accaduto a me poteva accadere ovunque. Non è un atto punitivo a seguito di un intervento di questo tipo che genera un comportamento corretto».
Come definisce il suo lavoro?
«Lo definisco impegnativo dal quale si impara tutti giorni e che regala anche tante soddisfazioni».
Se tutti ragionassero così non ci sarebbe tanta carenza di medici nei Pronto soccorso. Provi a convincere un laureando in Medicina ad entrare nell’Emergenza-urgenza.
«L’ emergenza è il lavoro più stimolante che c’è, devi essere sempre “sul pezzo”, non ti puoi rilassare mai. Dobbiamo essere pronti a tutto e c’è la possibilità di fare il medico a 360 gradi».
Dottoressa, oltre al lavoro lei ha qualche altra passione?
«Sì, per le immersioni subacquee. Le faccio appena posso. Lì mi isolo».
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