Morto Ercole De Berardis, storico presidente del Teramo Calcio. La sua ultima intervista al Centro per ricordarlo
Morto a 81 anni a Rimini, dove viveva da alcuni anni con la moglie, il teramano Ercole De Berardis, ex imprenditore edile, prima dirigente (dal 1974) e poi presidente del Teramo calcio dal 1980 al 1988. Nel 2016 la sua ultima intervista al Centro
TERAMO. Morto a 81 anni a Rimini, dove viveva da alcuni anni con la moglie, il teramano Ercole De Berardis, ex imprenditore edile, prima dirigente (dal 1974) e poi presidente del Teramo calcio dal 1980 al 1988. La celebrazione del funerale sarà mercoledì alle 15, presso la cattedrale di Teramo.
In suo ricordo riportiamo di seguito l’intervista rilasciata al nostro Dino Venturoni nel 2016.
De Berardis e il calcio anni '80 «Il mio Teramo era un modello» Presidente del Diavolo per otto stagioni, racconta gioie e dolori: «Vincevamo spendendo poco grazie al settore giovanile, poi qualcuno volle farmi fuori. Rumignani? Grande, ma mi tradì per soldi»
TERAMO. Il tempo qualche volta rende giustizia. A riguardarla oggi, dopo aver visto passare tra mille tormenti Cerulli Irelli e Malavolta e scivolare sul più bello Campitelli, la presidenza del Teramo calcio di Ercole De Berardis (che, come immagine, ha pagato a lungo il modo traumatico in cui concluse la sua avventura) va certamente rivalutata. Una cosa è certa: De Berardis è stato, oltre al Malavolta del 2002, l'unico presidente biancorosso a vincere un campionato professionistico, quello di C2 del 1985-86. Ma, senza ridurre tutto ai risultati, la gestione De Berardis va rivalutata perché, con non grandi risorse economiche, il Teramo infilò una serie di buoni campionati e valorizzò decine di giocatori del proprio settore giovanile. Cosa, quest'ultima, che dopo non è riuscita più a nessuno. E che, per una piazza come Teramo, sarebbe un obiettivo vitale.
De Berardis, quando è entrato nel Teramo? «Nel '74 con la fusione tra Teramo e Juventus Teramo, la società di cui ero presidente. Eravamo in Promozione con tutti ragazzi di Teramo, ma il Teramo era andato in C e non c'era più spazio per due realtà».
Ma lei in gioventù aveva giocato? «No. Ma non appassionarsi al calcio per me è impossibile. Il calcio conquista perché lo può giocare chiunque se ha cattiveria e determinazione, ed è uno sport che sta nel Dna di noi italiani che abbiamo alle spalle secoli di fame».
Che società era, quella degli anni Settanta? «Eravamo 13 dirigenti che ogni anno nominavano un presidente diverso. Nel '79 ci furono dissapori, Piero Chiodi volle fare il presidente e questo divise. Fu un campionato disastroso, retrocedemmo e scapparono tutti. Mi chiamò il sindaco insieme a Stanchieri e alla signora Di Giuseppe per rimettere in piedi la società, ma quando si andò a firmare la fideiussione non si presentarono e firmai da solo».
Così cominciò l'era De Berardis. Segnata, per i primi cinque anni, dai vani tentativi di tornare in C1. «Ma facemmo sempre dei campionati impotanti».
Poi venne l'84-85 e il famoso esonero di Corelli dopo un derby perso. «Per esonerare Corelli feci allenare Bruno Piccioni che aveva preso il patentino da due giorni. A Giulianova perdemmo, Corelli fece fermare il pullman due volte per bere con gli amici giuliesi e prima della partita arrivò tardi per lo stesso motivo: era al bar con loro. Io ho tanti amici a Giulianova, ma sportivamente non andava bene».
Quando perse lo spareggio con il Fano si scoraggiò? «No. Quel giorno a Terni dissi: l'anno prossimo voglio vincere. Avevamo già fatto la squadra per la C1 ed eravamo da tempo d'accordo con Rumignani. Piccioni era bravo, aveva fatto bene, ma ci serviva qualcosa di più. L'ambiente era appiattito su Bruno, lui era il monumento della casa. Lo capì, che l'avremmo mandato via, quando lo premiammo con una medaglia d'oro all'ultima partita».
Che dice di Rumignani? «Rumignani lo chiamavo "il bastardo", la sua idea di calcio era la nostra che venivamo dai dilettanti, dove si soffre e si combatte. Lui era l'espressione della cattiveria, chiamava i giocatori assaltatori, guastatori e incursori, con termini militari. Io e lui creavamo una polemica a settimana per tenere tutti sulla corda, Elso Serpentini con le sue trasmissioni ci dava una grossa mano».
Il campionato 85-86 lo stravinceste... «Quell'anno a Natale eravamo già promossi, mantenere la tensione altri cinque mesi fu dura. Poi "il bastardo" tradì, lui aveva il biennale ma andò via perché a Francavilla gli davano 100 milioni di stipendio. Quando me lo disse volevo aggredirlo in piazza, il diesse Eliani mi fermò. E Rumignani mi disse: devi andare via anche tu, perché questa città non ti darà niente. Aveva capito tutto di Teramo».
Per la C1 scelse un tecnico completamente diverso, il teramano Antonio Luzii... «Contattammo vari allenatori tra cui Reja, ma tutti mi cercavano 4-5 rinforzi che all'epoca erano un investimento da un miliardo e mezzo e questa cifra non sapevamo neanche come si scriveva. Valutammo che Luzii aveva le qualità tecniche, e le aveva: Lippi all'epoca lo chiamava tutti i giorni, se Luzii non ha fatto carriera è stato per la lingua, non si è saputo gestire a livello di rapporti. Quell'anno tatticamente fece a pezzi Zeman».
Quell'anno, con una punta da 15-20 gol, si poteva andare in B. «L'errore fu proprio quello di prendere la punta, Bresciani ci rovinò il modo di giocare che avevamo, con gli inserimenti. Fu un elemento di disturbo anche per lo spogliatoio. Dovevamo rimanere come eravamo partiti. Il grande rammarico è che con Rumignani andavamo in B».
E poi venne l'infausta stagione 87-88. «A un certo punto uscì sulla stampa che volevo vendere il Teramo. Avevamo delle difficoltà, è vero, ma anche un grosso credito in Lega, quasi 900 milioni per le cessioni effettuate, dunque potevamo superare la crisi. Qualcuno portò da Ascoli Marino Costantini e firmammo il passaggio delle quote. Sembrava tutto a posto, lui era un ambizioso. Ma poi si scoraggiò, forse per promesse non mantenute dai politici teramani, si defilò e gli dovemmo pignorare tre-quattro ville. Ripresi le quote e gli feci pagare 100 milioni, uno al giorno. Poi a fine '88 passai le quote alla Gestione e partecipazione. Ma era da febbraio che non c'ero più, io come presidente non sono mai retrocesso».
Insomma, sembra di capire che qualcuno a Teramo la fece fuori. Perchè? «In otto anni il calcio mi era costato oltre due miliardi delle vecchie lire. Io e miei collaboratori non è che cercavamo favori particolari, ma iniziative di sostegno. L'idea venne fuori: il bar dell'ospedale doveva essere dato al Teramo calcio, con parte dei suoi introiti potevamo dimezzare gli stipendi. Qualcuno, non so chi, vide l'affare del secolo - quel bar faceva 3-4mila scontrini al giorno - e fece fuori il Teramo. Poi Gestione e partecipazione si è impegnata a dare utili al Teramo calcio, mi risulta che dette qualcosa ma cifre non determinanti».
Ma lasciò con rammarico o con sollievo? «Entrambe le cose. Lasciai con rammarico perché tutto quello che avevo dato non era stato riconosciuto, con sollievo perché potevo fare una vita diversa. Stare lì contro tutti non era più il caso. Da quando era uscita l'idea del bar dell'ospedale ero circondato, arrivarono a minacce di galera ai revisori per farmi lasciare. Poi si è parlato a vanvera di debiti ma io ho lasciato un Teramo sano: del credito in Lega ho detto e il nostro settore giovanile dell'epoca era un modello in Italia. Vincemmo il campionato nell'86 con cinque ventenni locali in rosa, la metà delle mie squadre di allora veniva dal settore giovanile. Questa politica ci permetteva di fare una gestione che non costava tantissimo, il budget nostro in C1 era un terzo di quello del Foggia»
Oggi si sente rivalutato? «Le espressioni di stima nei miei confronti sono tante e quotidiane, per me pagare un caffè è difficile».
Un giudizio sui suoi successori? «No, giudizi non si possono dare, il fattore principe è l'amore per il calcio e quindi il dirigente è sempre da dieci perché ci mette il tempo, il denaro e la passione. Poi la passione ti può far fare l'errore...»
Com'è il calcio italiano di oggi? «È malato, se vai a vedere i bilanci ci sarebbero tre società che possono iscriversi in A e tra i dilettanti ci sono squadre che spendono più del Chievo. In C bisogna bloccare le retrocessioni: si sale e si scende per bacino d'utenza e solidità economica. Castel di Sangro in B è stata una circostanza occasionale che non ha nulla a che fare con il calcio. Oggi un bilancio di C pagando i giocatori ai minimi arriva a un milione e 800mila, con gli incassi che fai da tifosi e pubblicità vai sotto necessariamente di un milione... se ti va bene. Ora leggo che Gravina vuole allargare i play off aumentando la competizione senza paracadute, così tutti vorranno andare su, spenderanno e aumenteranno crac, penalizzazioni e così via». Lasciamo il calcio. Da ex imprenditore di un periodo d'oro dell'edilizia, come vede oggi l'economia a Teramo? «Male. I motivi? Diversi. Qui in cinquant'anni non siamo mai stati in grado di fare una strada per la Vibrata e di completare la strada per il mare. Poi c'è stata la perdita progressiva di elementi di centralità: Banca d'Italia, società di servizi. Davano lavoro e creavano indotto. E poi, le banche. Banca Popolare e Cassa di risparmio, che avevano l'80 per cento di raccolta soldi e prestiti alle imprese. La prima botta la dette la Banca popolare che fece la fusione con Pesaro, poi c'è stata la mancata unione delle Casse di risparmio locali. Così la nostra cassa è andata a cercare fortuna altrove con i risultati che sappiamo. Altro fattore: le imprese teramane sono state sempre solitarie, quando si è cercato di metterle insieme si sono creati danni invece di portarle a un gradino superiore. Quelle esperienze di consorzi hanno fatto emergere le divisioni. Pensate che io avevo cento dipendenti ed era un'impresa media, oggi sarebbe tra le più grandi. Le nostre imprese, rimaste da sole, non hanno più la forza contrattuale per prendere lavori grossi. Colpa dei limiti, anche culturali, di gente che si era fatta da sè».
Siamo ancora in tempo per salvarci? «Non credo. Dovremmo darci un'altra vocazione, puntare sul turismo e la cultura, valorizzare i luoghi meravigliosi che abbiamo nell'interno. Ma se la politica invece che una risorsa è un peso, come si fa?»
Cosa fa oggi, a 73 anni, Ercole De Berardis? «Guardo. Da dieci anni non faccio più l'imprenditore, perché in Italia a una certa età non puoi più farlo. Faccio il pensionato senza pensione. Guardo, e quello che vedo non mi piace. Se uno non paga una rata o una cambiale è segnato per cinque anni, è come un ergastolo. Poi però le banche danno milioni a chi fa l'imbroglione di professione e lì nessuno va ad indagare».