A Berlino andò in onda lo show
La caduta del Muro fu uno spettacolo mediatico più che un evento storico.
Il crollo del muro di Berlino è un evento grande evento storico? E se lo è stato, quale significato dobbiamo oggi attribuirgli? Le risposte sono diverse. Direi che per la storia-storiografia “tradizionale”, politica ed economica, si potrebbe andare ad un accomodamento prudenziale parlando di un grande ma non grandissimo evento. Perché nell’ambito degli interessi e delle analisi di questo tipo di storia, interessata ai mutamenti materiali e ai cambiamenti dei rapporti di forze, il muro cadendo non porta a trasformazioni decisive. La crisi del sistema sovietico era già in atto, palesata dalla crescente difficoltà produttiva, dal fallimento nel conflitto afgano, dalla resistenza della Polonia cattolica (Giovanni Paolo II e Solidarnosc), dal riformismo di Gorbacev e dal troppo spesso trascurato arrembaggio di Eltsin. In fondo, la caduta del muro è uno dei tanti momenti di passaggio del disfacimento del blocco comunista in Europa. Uno dei tasselli del domino. Viene, tanto per capirci, dopo il riconoscimento ufficiale di Solidarnosc e l’apertura della frontiera in Ungheria.
Soprattutto segue la politica di revisione con cui Gorbacev e Eltsin iniziano a liquidare ciò che del vecchio sistema appariva meno presentabile presso l’opinione pubblica mondiale. Direi che evento di rilievo ben maggiore è la tenuta del comunismo cinese e quindi il dramma di Tiennamen, cioè il fallimento di una perestroika asiatica. A Tiennamen si capisce che, se ormai il termine comunismo va ampiamente virgolettato in Cina, il potere degli apparati è pur sempre un dato storico ancora incisivo e, in ultima istanza, determinante. In Asia il muro non cade e le cose non cambiano. E questo è un dato che apre una stagione del tutto nuova, la vera novità del XXI secolo. In altre parole, io mi muoverei dentro una riflessione che porta acqua al mulino di coloro che nel comunismo sovietico, in particolare in quello di Stalin, hanno visto una cultura politica di una Russia poco europea.
Ridimensionerei alquanto le tesi di chi, come Eric Hobsbawm, pensa ad un “secolo breve” contrassegnando un periodo storico che dal 1914 arriva alla crisi del sistema sovietico. Questa impostazione ha il difetto di limitarsi ad una dimensione europea, diventa un ragionamento regionale, che poco incide rispetto alla forza ancora intatta, anzi crescente, del dispotismo asiatico che irrompe quasi trionfamente nel nostro tempo presente, rappresentando forse la maggiore minaccia incombente sul nostro futuro politico. Ma si noti bene: anche lo storico inglese, pur rendendo un certo omaggio alla caduta del muro ed al 1989, per chiudere il secolo breve deve per forza di cose scegliere il 1991. Direi che, sempre dal punto di vista di un certo tipo di approccio storiografico, il dato più specifico e concreto da legare alla caduta del muro è la ricomposizione della Germania.
Ma anche questo fatto, indubbiamente notevole, viene diluito (almeno per ora) dal processo di unificazione europea e dalle difficoltà intercorse nel rimettere insieme i due grossi cocci. Per certi versi, con il muro che cade, sbocconcellato da picconi e da semplici mani, non siamo neppure al cospetto di un evento egualmente emblematico e quasi virtuale come la presa della Bastiglia, perché in quel caso, nel fatidico giorno del 14 luglio, l’evento simbolico avveniva nell’epicentro del mutamento e ad opera di un agente diretto dello stesso, vale a dire il blocco rivoluzionario formato dal “terzo stato allargato” espresso dalla città di Parigi. A Berlino, invece, cade al più un “Vallo Adriano”. E cade con il beneplacito di correnti riformiste interne al sistema sovietico, dopo un comunicato di apertura dei passaggi da parte del governo comunista. Di sangue le giornate tedesche ne vedono quasi nulla.
Folla, certo. Folla grande ed allegra, e quasi subito un tornado di concerti, fotografie e canti. Ma lo storico sa bene che la grande giornata storica, della storia che modifica le cose “pesanti” e materiali, non fa mai così. Concetto reso celebre da un rivoluzionario come Mao (la rivoluzione non è un pranzo di gala) e da un conservatore come il Bismark che promette “lacrime e sangue”. Tutto questo, però, a mio giudizio, non significa che la caduta del muro sia un evento storico trascurabile o di secondo piano. Al contrario. Cado in contraddizione? Non credo, perché adesso passo a considerare la cosa dal punto di vista di una storia-storiografia diversa, soft, psicocentrica, una storia della comunicazione, attenta al mutamento che avviene nell’immaginario attraverso il sistema mediatico.
Da questo punto di vista, la caduta del muro è uno dei primi eventi veramente e soprattutto mediatici della storia europea. Facile da prevedere, estremamente spettacolare, con i Pink Floyd pronti per il loro pubblico di 250.000 (!), con l’icona kennediana da evocare. L’immagine più celebre di Kennedy vede il giovane presidente che sfida il muro appena eretto; e lo fa solennemente, a nome dei popoli liberi e di una nuova generazione, antitesi perfetta della gerontocrazia sovietica. Da quel momento inaugurale, il muro attrae il pubblico e fornisce ai media una sceneggiatura straordinaria: la perversità della violenza senza maschera, i morti nei tentativi di fuga, quelli veri e quelli letterari cinematografici (famosissima l’eroina del romanzo poi film, La spia che venne da freddo, la fiction più celebre e romantica dedicata alla guerra fredda).
I media hanno da una parte Moby Dick in secca agonizzante e dall’altra milioni di Achab con i ramponi assetati. Voluto e ripreso da tutte le telecamere del mondo, l’abbattimento del muro è dunque un happening colossale, di certo il più grande di tutti i tempi, un’opera d’arte di massa straordinaria, forse il capolavoro di un’arte nuova, in cui la distruzione dell’oggetto rende protagonisti i milioni di ramponieri dinanzi alle camere in perenne osservazione. E’ giusto, occorre ricordarlo: c’è un concorso ampio delle correnti politiche e ideologiche europee. Si badi bene: non si deve pensare solo ad una destra che balla felice sopra la tomba del suo nemico.
A viaggiare sacco in spalla per raggiungere le macerie berlinesi era soprattutto la sinistra che, in quel momento, ancora sperava di veder liquidato il peggio del comunismo e di consolidare l’astro di Gorbacev (l’uomo che aveva permesso che la dissoluzione del sistema imperiale accadesse). La sinistra giovane e alla moda sperava ancora di ricucire lo strappo dei nouveaux philosophes parigini, quelli che, fuoriusciti dalla gauche, avevano messo al centro della loro ricerca non più l’oppressione capitalistica ma il dispotismo comunista, il gulag, il muro. In fondo, lo slancio con cui si guarda a Berlino è anche l’ultimo tentativo di bloccare le cose a metà, di sperare ancora in un socialismo che da reale diventasse democratico sotto la direzione del leader russo.
Tuttavia, queste motivazioni ideologiche venivano assai dopo e assai in secondo piano rispetto alla scelta concorde e poetica dei media di sfruttare l’emblematicità del muro per dare un senso plastico, tangibile e documentabile a quanto stava accadendo in Europa orientale. La caduta del muro è stata il primo grande trionfo dei media, soprattutto televisivi, assurti ormai al ruolo di motori propulsivi della memoria storica, della definizione del presente e del passato dentro la società delle comunicazioni di massa. Questa novità è compresa quasi immediatamente dagli uomini di potere. Lo dimostrano, tra la fine del 1989 e il 1991, gli scontri attorno alle sedi televisive in Romania e in Russia.
Lo dimostra la vicenda politica italiana, rattrappita attorno alla questione televisiva. Era avvertibile quasi subito, in quei giorni del 1989, questo carattere essenzialmente mediatico dell’evento, che ebbe una bizzarra ma consequenziale deriva oscillante tra consumismo e feticismo: una valanga di turisti politici prese a recarsi sul muro, a brancolare sulle sue spoglie, per tornare in patria con qualche frammento di cemento, di intonaco. E ognuno di questi reduci con un’aria gongolante, ti mostrava poggiata sul palmo di una mano, una reliquia formata da granelli di intonaco o di cemento. Tutta roba che avrebbe potuto tirar via da qualsiasi parete di casa sua. Ma forse il cretino eri tu che stavi a credergli.
Soprattutto segue la politica di revisione con cui Gorbacev e Eltsin iniziano a liquidare ciò che del vecchio sistema appariva meno presentabile presso l’opinione pubblica mondiale. Direi che evento di rilievo ben maggiore è la tenuta del comunismo cinese e quindi il dramma di Tiennamen, cioè il fallimento di una perestroika asiatica. A Tiennamen si capisce che, se ormai il termine comunismo va ampiamente virgolettato in Cina, il potere degli apparati è pur sempre un dato storico ancora incisivo e, in ultima istanza, determinante. In Asia il muro non cade e le cose non cambiano. E questo è un dato che apre una stagione del tutto nuova, la vera novità del XXI secolo. In altre parole, io mi muoverei dentro una riflessione che porta acqua al mulino di coloro che nel comunismo sovietico, in particolare in quello di Stalin, hanno visto una cultura politica di una Russia poco europea.
Ridimensionerei alquanto le tesi di chi, come Eric Hobsbawm, pensa ad un “secolo breve” contrassegnando un periodo storico che dal 1914 arriva alla crisi del sistema sovietico. Questa impostazione ha il difetto di limitarsi ad una dimensione europea, diventa un ragionamento regionale, che poco incide rispetto alla forza ancora intatta, anzi crescente, del dispotismo asiatico che irrompe quasi trionfamente nel nostro tempo presente, rappresentando forse la maggiore minaccia incombente sul nostro futuro politico. Ma si noti bene: anche lo storico inglese, pur rendendo un certo omaggio alla caduta del muro ed al 1989, per chiudere il secolo breve deve per forza di cose scegliere il 1991. Direi che, sempre dal punto di vista di un certo tipo di approccio storiografico, il dato più specifico e concreto da legare alla caduta del muro è la ricomposizione della Germania.
Ma anche questo fatto, indubbiamente notevole, viene diluito (almeno per ora) dal processo di unificazione europea e dalle difficoltà intercorse nel rimettere insieme i due grossi cocci. Per certi versi, con il muro che cade, sbocconcellato da picconi e da semplici mani, non siamo neppure al cospetto di un evento egualmente emblematico e quasi virtuale come la presa della Bastiglia, perché in quel caso, nel fatidico giorno del 14 luglio, l’evento simbolico avveniva nell’epicentro del mutamento e ad opera di un agente diretto dello stesso, vale a dire il blocco rivoluzionario formato dal “terzo stato allargato” espresso dalla città di Parigi. A Berlino, invece, cade al più un “Vallo Adriano”. E cade con il beneplacito di correnti riformiste interne al sistema sovietico, dopo un comunicato di apertura dei passaggi da parte del governo comunista. Di sangue le giornate tedesche ne vedono quasi nulla.
Folla, certo. Folla grande ed allegra, e quasi subito un tornado di concerti, fotografie e canti. Ma lo storico sa bene che la grande giornata storica, della storia che modifica le cose “pesanti” e materiali, non fa mai così. Concetto reso celebre da un rivoluzionario come Mao (la rivoluzione non è un pranzo di gala) e da un conservatore come il Bismark che promette “lacrime e sangue”. Tutto questo, però, a mio giudizio, non significa che la caduta del muro sia un evento storico trascurabile o di secondo piano. Al contrario. Cado in contraddizione? Non credo, perché adesso passo a considerare la cosa dal punto di vista di una storia-storiografia diversa, soft, psicocentrica, una storia della comunicazione, attenta al mutamento che avviene nell’immaginario attraverso il sistema mediatico.
Da questo punto di vista, la caduta del muro è uno dei primi eventi veramente e soprattutto mediatici della storia europea. Facile da prevedere, estremamente spettacolare, con i Pink Floyd pronti per il loro pubblico di 250.000 (!), con l’icona kennediana da evocare. L’immagine più celebre di Kennedy vede il giovane presidente che sfida il muro appena eretto; e lo fa solennemente, a nome dei popoli liberi e di una nuova generazione, antitesi perfetta della gerontocrazia sovietica. Da quel momento inaugurale, il muro attrae il pubblico e fornisce ai media una sceneggiatura straordinaria: la perversità della violenza senza maschera, i morti nei tentativi di fuga, quelli veri e quelli letterari cinematografici (famosissima l’eroina del romanzo poi film, La spia che venne da freddo, la fiction più celebre e romantica dedicata alla guerra fredda).
I media hanno da una parte Moby Dick in secca agonizzante e dall’altra milioni di Achab con i ramponi assetati. Voluto e ripreso da tutte le telecamere del mondo, l’abbattimento del muro è dunque un happening colossale, di certo il più grande di tutti i tempi, un’opera d’arte di massa straordinaria, forse il capolavoro di un’arte nuova, in cui la distruzione dell’oggetto rende protagonisti i milioni di ramponieri dinanzi alle camere in perenne osservazione. E’ giusto, occorre ricordarlo: c’è un concorso ampio delle correnti politiche e ideologiche europee. Si badi bene: non si deve pensare solo ad una destra che balla felice sopra la tomba del suo nemico.
A viaggiare sacco in spalla per raggiungere le macerie berlinesi era soprattutto la sinistra che, in quel momento, ancora sperava di veder liquidato il peggio del comunismo e di consolidare l’astro di Gorbacev (l’uomo che aveva permesso che la dissoluzione del sistema imperiale accadesse). La sinistra giovane e alla moda sperava ancora di ricucire lo strappo dei nouveaux philosophes parigini, quelli che, fuoriusciti dalla gauche, avevano messo al centro della loro ricerca non più l’oppressione capitalistica ma il dispotismo comunista, il gulag, il muro. In fondo, lo slancio con cui si guarda a Berlino è anche l’ultimo tentativo di bloccare le cose a metà, di sperare ancora in un socialismo che da reale diventasse democratico sotto la direzione del leader russo.
Tuttavia, queste motivazioni ideologiche venivano assai dopo e assai in secondo piano rispetto alla scelta concorde e poetica dei media di sfruttare l’emblematicità del muro per dare un senso plastico, tangibile e documentabile a quanto stava accadendo in Europa orientale. La caduta del muro è stata il primo grande trionfo dei media, soprattutto televisivi, assurti ormai al ruolo di motori propulsivi della memoria storica, della definizione del presente e del passato dentro la società delle comunicazioni di massa. Questa novità è compresa quasi immediatamente dagli uomini di potere. Lo dimostrano, tra la fine del 1989 e il 1991, gli scontri attorno alle sedi televisive in Romania e in Russia.
Lo dimostra la vicenda politica italiana, rattrappita attorno alla questione televisiva. Era avvertibile quasi subito, in quei giorni del 1989, questo carattere essenzialmente mediatico dell’evento, che ebbe una bizzarra ma consequenziale deriva oscillante tra consumismo e feticismo: una valanga di turisti politici prese a recarsi sul muro, a brancolare sulle sue spoglie, per tornare in patria con qualche frammento di cemento, di intonaco. E ognuno di questi reduci con un’aria gongolante, ti mostrava poggiata sul palmo di una mano, una reliquia formata da granelli di intonaco o di cemento. Tutta roba che avrebbe potuto tirar via da qualsiasi parete di casa sua. Ma forse il cretino eri tu che stavi a credergli.